Febbraio 2017

Le radici DELL’ANTISEMITISMO

Cosa differenzia e cosa accomuna l’editto di Granada (1492) e le Leggi di Norimberga (1935)


Ester Procopio

Uno degli ultimi lavori del professore di Storia moderna Adriano Prosperi, intitolato Il seme dell’intolleranza. Ebrei, eretici e selvaggi: Granada 1492 (Laterza, 2011), ha avuto il merito di puntare nuovamente l’attenzione sul problema delle radici storiche dell’antisemitismo, ricercandole fin dentro il cuore della civiltà occidentale, ossia in quella data simbolo dell’espansionismo cattolico che è il 1492, anno della presa di Granada, ultima roccaforte musulmana sul continente (a conclusione della più lunga crociata che la cristianità abbia mai intrapreso, iniziata nel 718 e indicata con il termine di Reconquista) ma anche anno in cui Isabella di Castiglia, consumate le nozze con Ferdinando d’Aragona, assegna a Colombo le tre caravelle grazie alle quali verrà scoperto il Nuovo mondo. Le fasi della Reconquista. In verde è evidenziato il regno musulmano di al-Andalus, costituitosi a partire dall’VIII secolo (711) sulle ceneri del regno visigotico. I visigoti, convertitosi al cristianesimo, nel VII secolo perseguitavano gli ebrei: si riteneva che l’invasione araba fosse stata favorita da quest’ultimi. Eccettuato il periodo in cui governò la dinastia degli Almohadi (1147-1269) nel regno di al-Andalus cristiani, ebrei e musulmani convivevano pacificamente. Si pongono così le basi per la nascita della nazione spagnola (il processo di unificazione proseguirà poi con Carlo V) e la storia trapassa dall’età medievale, tutt’altro che oscura, a quella moderna. Tuttavia, come Prosperi evidenzia (pp. 5-21), questo è solo un lato della medaglia, quello fulgido: il prezzo da pagare per rafforzare l’idea di un’unità politica è l’imposizione dell’unificazione religiosa, che infatti sfocia nella promulgazione dell’editto di Granada (31 marzo) con il quale si obbliga gli ebrei all’espulsione, all’esilio (la celebre diaspora degli ebrei sefarditi); agli ebrei convertiti era consentito restare, ma non senza che questi venissero percepiti dalla comunità cattolica locale come corpo estraneo, avulso, da guardare con sospetto. Gli ebrei convertiti (i cosiddetti cristianos nuevos) potevano essere interrogati, torturati e incarcerati dall’Inquisizione spagnola appena istituita, se sospettati di una conversione di facciata (un’ottima pellicola su questo tema è “L’ultimo inquisitore”, in cui una giovane donna viene accusata di giudaismo quando viene vista rifiutare un maiale) e chi volesse accedere alle cariche professionali avrebbe dovuto dimostrare di non avere antenati ebrei (la limpieza de sangre). L’editto durerà fino al 1858. La storia dell’editto di Granada è interessante perché ci pone di fronte a molteplici interrogativi: chi sono gli ebrei e perché sono stati perseguitati? La persecuzione spagnola quanto e cosa ha a che vedere con l’antisemitismo nazista e le Leggi di Norimberga? L’identità ebraica, anzitutto, è frutto di molteplici fattori intrecciati ed è tuttora oggetto di discussione nella comunità ebraica stessa che, come normale conseguenza di secoli di storia e migrazioni, è variegata al suo interno (esistono vari rami dell’ebraismo: l’ebraismo ortodosso, riformista etc…): c’è il fattore religioso per cui anche i cristiani convertiti possono dirsi legittimamente ebrei, c’è il fattore culturale per cui gli ebrei sono assimilabili a un’etnia, cioè a una comunità caratterizzata da omogeneità di lingua, tradizioni etc e c’è, infine, anche un fattore genealogico, per lo più matrilineare, per cui il figlio/discendente di ebrei è anch’egli ebreo. A causa di questa pluralità di fattori esistono all’interno del mondo ebraico notevoli sfumature: possiamo avere il caso di ebrei non osservanti ma che continuano a sentire forti legami culturali con la comunità (no fattore religioso, sì fattore culturale) oppure, viceversa, intere famiglie ebraiche emigrate lontano e che storicamente hanno perso la loro identità ebraica (né fattore religioso né culturale ma solo genealogico: è sufficiente?). Al tempo del delirio nazista, che pure pretendeva d’essere scientifico, gli ebrei furono dapprima emarginati poi sterminati sulla base della loro presunta inferiorità razziale; il principio per determinare chi fosse ebreo si basava sul calcolo delle discendenze ereditarie. Cito le Leggi di Norimberga del 1935: gli “ebrei con validità giuridica” (i Geltungsjude) erano coloro che discendevano da tre o quattro nonni iscritti presso le comunità ebraiche, mentre coloro che avevano uno o due nonni, i “meticci” (i Mischinge), diventavano direttamente Geltungsjude se iscritti in una congregazione ebraica dal 1935 in poi. Personalmente ritengo importante ricordare le Leggi di Norimberga – oltre alla ben più importante considerazione che discriminare sulla base del credo religioso, appartenenza etnica, colore della pelle, orientamento sessuale etc… sia quanto di più abominevole e disumano esista –. Le Leggi di Norimberga mostrano come al fondo dell’ideologia nazista ci fosse una pretesa di razionalismo e scientificità, a causa della quale esse superano di gran lunga, in quanto a orrore, l’editto di Granada. Cosa cambia, al fondo? Gli storici (mi avvalgo ancora di Prosperi come fonte) sogliono distinguere tra l’antigiudaismo di matrice cristiana, su basi religiose (il giudeo discriminato in quanto macchiato dell’atavica colpa di aver messo a morte il Cristo – chissà perché non esaltato per avergli dato natali e proseliti) e l’antisemitismo recente su basi razzistiche, culminato con l’Olocausto; tuttavia – come Prosperi fa notare – non esiste una cesura così netta tra i due atteggiamenti, c’è una continuità, come è vero che l’antigiudaismo cristiano deve pur aver contribuito in una certa misura nell’elaborazione dell’antisemitismo e, se non altro, ne ha creato il retroterra ideale. La tesi di Prosperi è tuttora discussa (è condivisa anche da altri storici come Levi della Torre e Battini) né dare una risposta è semplice, ma – aggiungo io – un comune denominatore mi sembra evidente, antropologico più che storico: ogni qualvolta il potere vuole creare un sentimento di unità nazionale, specie in una nazione impoverita da anni di guerre o miseria, e con lo scopo di dominare, ecco che il potere si rivale su una categoria già percepita dalla società come diversa, estranea, catalizza su di essa l’odio collettivo, la sopraffà con il pubblico consenso.