Maggio 2017

Dodici SPIRITI LIBERI

I dodici professori che persero la cattedra universitaria per non giurare fedeltà al fascismo


Maria Cristina Vecchiarelli

“Libertà va cercando, ch’è sì cara/come sa chi per lei vita rifiuta”. La vita in cambio della libertà è un equo scambio: uno scambio alla pari. La libertà vale esattamente la vita poiché non c’è vera vita senza di essa. Un individuo oppresso da un autoritarismo, indotto a opinioni condizionate da mistificazioni o censure delle fonti d’informazione, caduto nelle seduzioni del denaro o del potere, subisce una contrazione del suo spazio d’azione e di scelta tale da rendere la sua un’esistenza infima, isolata e inaridita, svilita di senso e mortificata nell’auto dominio, cioè nell’essenza della sua umanità. Per questo, in ogni tempo, c’è stato qualcuno che ha lottato strenuamente per una vita libera fino ad arrivare all’extrema ratio dell’affermazione della libertà nella morte. E riesumando reminiscenze scolastiche il pensiero corre a Catone l’Uticense, collocato da Dante a custodia del Purgatorio: il “… veglio solo, degno di tanta reverenza in vista, che più non dee a padre alcun figliuolo” al quale Virgilio rammenta il proprio esemplare sacrificio allo scopo di perorare la causa delle peregrinazioni del suo discepolo nei regni dell’oltretomba quale ricerca di quel bene supremo, tanto prezioso da indurre Catone ad uccidersi dopo il trionfo del dittatore Cesare e la caduta della repubblica. Non c'è però un unico modo di immolare la vita in nome della libertà. Accanto a quello violento e ultimativo del suicida come dell’eroe caduto sul campo di battaglia combattendo l’invasore o del martire salito al patibolo per non abiurare un proprio convincimento ideale o religioso, accanto all’azzardo disperato dei fuggiaschi da città assediate, dai lager, dai gulag, esiste anche quello meno evidente, pur se non meno drammatico, della messa a repentaglio non della vita in sé, ma di tutto ciò che la riempie e definisce: professione lavorativa, stabilità economica, onorabilità, riconoscimento sociale, relazioni, affetti. E forse l'avversità patita è ancora più beffarda, amara e dolorosa, se proprio solo la vita è ciò che rimane come una sorta di guscio vuoto, ridotta a mera sequenza di funzioni, impulsi e sensazioni elementari, interamente da ricostruire ripartendo da zero, in lotta incessante con la sofferenza del ricordo di ciò che la riempiva e che è andato distrutto. E’ la sorte dei detenuti e degli esuli politici, e fu anche quella di un un piccolo gruppo di professori universitari protagonisti loro malgrado della pagina più buia della storia italiana recente, i quali, avversando il regime di Mussolini, in nome della libertà di pensiero e di insegnamento, nella piena consapevolezza delle conseguenze della loro determinazione, rifiutarono di sottostare al giuramento di fedeltà al fascismo imposto con regio decreto n. 1227 del 28 agosto 1931 a tutti i cattedratici italiani. Furono dodici in tutto, su milleduecentoventicinque docenti in servizio: Ernesto Buonaiuti, Mario Carrara, Gaetano De Sanctis, Giorgio Errera, Giorgio Levi Della Vida, Fabio Luzzatto, Piero Martinetti, Bartolo Nigrisoli, Francesco ed Edoardo Ruffini, Lionello Venturi, Vito Volterra. Di questi dodici quattro erano titolari di cattedra alla Sapienza di Roma: Gaetano De Sanctis di storia antica, Ernesto Buonaiuti di storia del cristianesimo, Vito Volterra di fisica e matematica, Giorgio Levi Della Vida di ebraico e lingue semitiche comparate. Il primo proveniva da una famiglia papalina rigorosamente e fieramente antimonarchica, il secondo era un sacerdote scomunicato per le sue posizioni radicali e moderniste e per le sue critiche ai Patti Lateranensi legato al terzo da una solida amicizia, gli ultimi due prestigiosi studiosi laici di famiglie ebree non osservanti. “La tirannide imperversava e cercava nuove vie per meglio fondare il proprio dominio e asservire le anime degli Italiani. Una di queste vie, suggerita (mi duole dichiararlo), da un uomo di alto animo che me lo confessò egli stesso, Giovanni Gentile, fu la via del giuramento dei professori universitari”. Così uno di loro, lo storico Gaetano De Sanctis, nelle sue memorie attribuisce esplicitamente la responsabilità del giuramento a uno dei massimi pensatori dell'epoca, entusiasta ideologo del regime, Giovanni Gentile: La storia di questi uomini è stata narrata da Giorgio Boatti in un libro appassionante, Preferirei di no, dove le loro vite, variamente intrecciate, incastonate in un affresco storico e sociale che restituisce egregiamente e puntualmente il clima di quel periodo, vengono descritte con perfetto equilibrio tra precisione e freddezza cronachistica e pathos e partecipazione alle tragedie loro, delle loro famiglie e dell’Italia di quel tempo. L'obbligo del giuramento fu l’ulteriore giro di vite di un regime autoritario che, dissipato l’iniziale generale favore con cui era stato accolto, soprattutto in seguito all'efferata vicenda del delitto Matteotti, stava vivendo rapporti sempre più travagliati con il mondo intellettuale. Narra Boatti che già nel biennio 1922-24, durante la permanenza di Giovanni Gentile al vertice del dicastero dell’Istruzione, si registrarono i primi casi di licenziamento e prepensionamento a carattere discriminatorio, ma fu solo a partire dal 1925 che il controllo e l’epurazione politica diventarono anche numericamente significativi. Tuttavia erano ancora ben pochi i casi di aperto dissenso, i fiochi bagliori di libertà nel grigiore del pavido conformismo che le tenebre della dittatura tentavano in ogni modo di soffocare. Brillò prima di tutti quello del deputato socialista e storico Gaetano Salvemini, oppositore di Mussolini dalla prima ora, che sin dal 1923 aveva dovuto subire l’ostilità dei fascisti, fatta di ostacoli, ritorsioni, minacce, intimidazioni, e che nell’estate del 1925, prima arrestato, poi amnistiato, rilasciato in libertà provvisoria e privato del passaporto, disgustato definitivamente proprio dall’amnistia - una concessione del regime per passare un colpo di spugna sulle responsabilità dell’assassinio di Giacomo Matteotti - si convinse di non poter più mantenere alcun legame con la patria ed espatriò clandestinamente in Francia, ricevendo nei mesi successivi dal ministero dell’Istruzione pubblica - che sarebbe divenuto di lì a breve dell’Educazione Nazionale - paradossali inviti a tornare in Italia corredati da profferte di pace quali la disponibilità di un rientro differito dopo due anni di studio all’estero. Salvemini, appresa la proposta quando era ormai riparato in Inghilterra, la commenta così nelle sue memorie: “quell’offerta mi fece l’impressione di una sferzata sulla faccia. Se l’avessi accettata, avrei rotto ogni solidarietà con gli antifascisti, avrei dovuto interdirmi ogni critica al regime che mi faceva lavorare; e mentre i miei amici in Italia rischiavano libertà e vita nel resistere al fascismo, io me la sarei goduta all’estero studiando a spese del governo fascista”. Fu in quella circostanza, propiziata proprio dall’apparente magnanimità del regime intenzionato a salvare il salvabile provando a fare dello scomodo e troppo internazionalmente noto Salvemini la foglia di fico a garanzia della sua liberalità, che maturò in maniera irrevocabile la sua decisione di affermazione della libertà a scapito dell’intera vita condotta fino ad allora. Nel novembre 1925 comunicò perciò da Londra all’amico Piero Calamandrei la sua intenzione di lasciare la cattedra universitaria. “Sono giunto a questa decisione dopo molto doloroso pensarci su. Aspettativa no. Un permesso non avrebbe risolto niente, ed avrebbe l’aspetto di una attesa non esente da qualche piccola speranzella, e disturberebbe l’ordine degli studi. Tornare no: perché tutti direbbero che è una “provocazione”, e se fossi ammazzato direbbero: “lo sapeva quel che gli toccava: perché è tornato?” Dunque, dimissioni per non essere dichiarato dimissionario per abbandono di posto… In attesa, farò all’estero tutto il possibile perché si volti la carta. Non credo che i fascisti abbiano fatto un buon affare costringendomi a questa deliberazione. Avrebbero fatto meglio ad ammazzarmi.” Quattro giorni dopo scrisse al Rettore della sua Università di Firenze una lettera impossibile da fraintendere: “Signor Rettore, la dittatura fascista ha soppresso, ormai, completamente, nel nostro paese, quelle condizioni di libertà, mancando le quali l’insegnamento universitario della Storia – quale io lo intendo – perde ogni dignità, perché deve cessare di essere strumento di libera educazione civile e ridursi a servile adulazione del partito dominante, oppure a mere esercitazioni erudite, estranee alla coscienza morale del maestro e degli alunni. Sono costretto perciò a dividermi dai miei giovani e dai miei colleghi, con dolore profondo, ma con la coscienza sicura di compiere un dovere di lealtà verso di essi, prima che di coerenza e di rispetto verso me stesso. Ritornerò a servire il mio paese nella scuola, quando avremo riacquistato un governo civile.” La lettera, resa pubblica, fece scoppiare in Italia un putiferio. Mentre il Senato accademico dell’ateneo fiorentino respingeva con voto solenne le affermazioni di Salvemini la Camera dei deputati affrontò l’esame del progetto di legge che contemplava la perdita della cittadinanza da parte di chi “commettesse o concorresse a commettere, all’estero, fatti diretti a turbare l’ordine pubblico nel Regno, o a diminuzione del buon nome o del prestigio dell’Italia, anche se il fatto non costituiva reato”. Salvemini ribattè al Senato accademico con un’altra missiva di fuoco che conteneva questo passaggio: “Entrai nella scuola trent’anni or sono, quando la legge mi domandava solo che insegnassi storia con spirito di verità e di lealtà, non che vendessi la mia anima al partito dominante. (…) Oggi la costituzione politica italiana di trent’anni or sono è completamente abolita. Oggi l’Italia è divisa tra una minoranza di padroni armati, a cui tutto è lecito, anche l’assassinio, ed una moltitudine di sudditi disarmati, non più protetti da nessuna legge morale, esclusi da ogni diritto politico. L’insegnamento della storia è sorto, in Italia e fuori d’Italia, come bisogno culturale di paesi che si costituivano a regime libero. Dove le istituzioni libere scompaiono, ivi l’insegnante di storia in una scuola pubblica sarà libero del proprio insegnamento solo se l’orientamento del suo pensiero sarò conforme alle ideologie del partito dominante (...)”. Poi, dopo l’elencazione degli ostacoli e delle intimidazioni subite negli ultimi anni durante lo svolgimento dell’attività universitaria, si concludeva così: “Se questi divieti, minacce, suggerimenti non appaiono ai componenti il Senato Accademico dell’Università di Firenze tali da menomare la dignità di un insegnante, questo vuol dire non che il sentimento della mia dignità sia in me troppo alto, ma che nei componenti il Senato Accademico il sentimento della loro dignità è troppo basso.” Conseguenze immediate furono da una parte non l’accettazione delle dimissioni, bensì la destituzione d’ufficio di Salvemini dall’insegnamento, e dall’altra il decreto legge del 24 dicembre 1925 in cui si disponeva che tutti i funzionari statali, insegnanti compresi, potessero essere rimossi dal servizio qualora non dessero “per ragioni di manifestazioni compiute in ufficio o fuori d’ufficio piena garanzia di un fedele adempimento dei loro doveri o si ponessero in condizioni di incompatibilità con le generali direttive politiche del governo.” Il decreto giungeva al termine di un anno di grande tensione tra il regime e l’intellighenzia del Paese. Nella primavera c’era stata anche la cosiddetta “guerra dei manifesti” che aveva formalmente suggellato la fine dell’amicizia tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, trasformando, scrive Boatti, il comune sodalizio culturale in una contrapposizione netta anche se non riassumibile in banali semplificazioni. Il pomo della discordia era proprio il giudizio sul fascismo, sul quale ambedue erano apparsi originariamente in sintonia, avendolo, sia pur con diverse sfumature e con maggiore o minore convinzione interiore, sostenuto, ma che ora sembrava al conservatore, al "reazionario" Croce, araldo di un mondo radicato nel passato, dopo ch’egli ne aveva auspicato l’avvento come di un qualcosa che “non poteva e non doveva essere altro che un ponte di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale”, aver imboccato una svolta autoritaria che calpestava - assieme agli aspetti peculiari dell’autonomia dell’intellettuale e dello scienziato quali la libertà di stampa e di opinione in nome di un’inaccettabile contaminazione e subordinazione alla politica - i valori e gli ideali morali propri del Risorgimento che aveva fondato l’Italia. Gentile, invece, continuava a pensarla come l'aveva sempre pensata, cioè esattamente al contrario: teorizzatore dello Stato forte, autoritario, etico, educatore, dove l’individuo può maturare la propria libertà nel solo modo possibile, ossia all’interno della legge e di un contesto istituzionale organizzato, persisteva nel vedere nel fascismo non un’ideologia politica ma una fase storica, un’azione, un “atteggiamento spirituale”, la novità rivoluzionaria capace di creare un uomo nuovo, mistico, anti materialista, volto a grandi imprese, antitetico al carattere scettico, mediocre, furbastro, che Giolitti, il traditore del Risorgimento, aveva lasciato imprimere alla nazione. Le ostilità si aprirono il 21 aprile 1925, quando, a conclusione di un “Convegno per le istituzioni fasciste di cultura” svoltosi a Bologna, venne scritto da Gentile e corretto personalmente da Mussolini un “Manifesto degli intellettuali del fascismo” che riassumeva le motivazioni che erano alla base dell’adesione del filosofo al regime. Il Manifesto, sottoscritto da duecentocinquanta firmatari tra cui, oltre agli scontati Gabriele D’Annunzio e Filippo Tommaso Marinetti, anche Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti, cominciava così: « Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre. Le sue origini più prossime risalgono al 1919, quando intorno a Benito Mussolini si raccolse un manipolo di uomini reduci dalle trincee e risoluti a combattere energicamente la politica demosocialista allora imperante. La quale della grande guerra, da cui il popolo italiano era uscito vittorioso ma spossato, vedeva soltanto le immediate conseguenze materiali e lasciava disperdere se non lo negava apertamente il valore morale rappresentandola agli italiani da un punto di vista grettamente individualistico e utilitaristico come somma di sacrifici, di cui ognuno per parte sua doveva essere compensato in proporzione del danno sofferto, donde una presuntuosa e minacciosa contrapposizione dei privati allo Stato, un disconoscimento della sua autorità, un abbassamento del prestigio del Re e dell'Esercito, simboli della Nazione soprastanti agli individui e alle categorie particolari dei cittadini e un disfrenarsi delle passioni e degl'istinti inferiori, fomento di disgregazione sociale, di degenerazione morale, di egoistico e incosciente spirito di rivolta a ogni legge e disciplina. L'individuo contro lo Stato; espressione tipica dell'aspetto politico della corruttela degli anni insofferenti di ogni superiore norma di vita umana che vigorosamente regga e contenga i sentimenti e i pensieri dei singoli. Il Fascismo pertanto alle sue origini fu un movimento politico e morale. La politica sentì e propugnò come palestra di abnegazione e sacrificio dell'individuo a un'idea in cui l'individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione. (...) Di qui il carattere religioso del Fascismo. Questo carattere religioso e perciò intransigente, spiega il metodo di lotta seguito dal Fascismo nei quattro anni dal '19 al '22.” In esplicita risposta apparve su Il Mondo del 1° maggio 1925 il Manifesto Croce, che fu chiamato anche Antimanifesto. Questo il suo testo integrale: «Gl'intellettuali fascisti, riuniti in congresso a Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl'intellettuali di tutte le nazioni per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista. Nell'accingersi a tanta impresa, quei volenterosi signori non debbono essersi rammentati di un consimile famoso manifesto, che, agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagl'intellettuali tedeschi; un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore. E, veramente, gl'intellettuali, ossia i cultori della scienza e dell'arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e adempiono il loro dovere con l'iscriversi a un partito e fedelmente servirlo, come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l'opera dell'indagine e della critica e le creazioni dell'arte, a innalzare parimenti tutti gli uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale affinché con effetti sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti dell'ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e scienza è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà di stampa, non può dirsi nemmeno un errore generoso. E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti, un atto che risplende di molto delicato sentire verso la patria, i cui travagli non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto, è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici delle proprie nazioni. Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal filati raziocini; come dove si prende in iscambio l'atomismo di certe costruzioni della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo democratico del secolo decimonono, cioè l'antistorico e astratto e matematico democraticismo, con la concezione sommamente storica della libera gara e dell'avvicendarsi dei partiti al potere, onde, mercé l'opposizione, si attua quasi graduandolo, il progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degl'individui al tutto, quasi che sia in questione ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più efficace elevamento morale; o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso indiscernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti etici, quali sono le assemblee legislative, e si vagheggia l'unione o piuttosto la commistione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca corruttela, o quanto meno, al reciproco impedirsi. E lasciamo da parte le ormai note e arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche. Ma il maltrattamento delle dottrine e della storia è cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell'abuso che si fa della parola "religione"; perché, a senso dei signori intellettuali fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia superstizione, che rilutta alla morte la quale, le sta sopra e alla quale dovrà pur acconciarsi; e ne recano a prova l'odio e il rancore che ardono, ora come non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l'odio e il rancore che si accendono contro un partito che nega ai componenti degli altri partiti il carattere di italiani e li ingiuria stranieri, e in quell'atto stesso si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l'animosità sparsi dappertutto, che hanno tolto persino ai giovani delle università l'antica e fidente fratellanza nei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro gli altri in sembianti ostili; è cosa che suona, a dir vero, come un'assai lugubre facezia. In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova religione, la nuova fede, non si riesce a intendere dalle parole del verboso manifesto; e, d'altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli all'autorità e di demagogismo, di proclamata riverenza alle leggi e di violazione delle leggi, di concetti ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamenti alla Chiesa cattolica, di aborrimenti della cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E se anche taluni plausibili provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi nulla che possa vantarsi di un'originale impronta, tale da dare indizio di nuovo sistema politico che si denomini dal fascismo. Per questa caotica e inafferrabile "religione" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la fede che da due secoli e mezzo è stata l'anima dell'Italia che risorgeva, dell'Italia moderna; quella fede che si compose di amore alla verità, di aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per l'educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli uomini del Risorgimento, di coloro che per l'Italia operarono, patirono e morirono; e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri avversari, e gravi e ammonitori a noi perché teniamo salda la loro bandiera. La nostra fede non è un'escogitazione artificiosa ed astratta o un invasamento di cervello cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale o morale. Ripetono gli intellettuali fascisti, nel loro manifesto, la trita frase che il Risorgimento d'Italia fu l'opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d'Italia innanzi ai contrasti fra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire chiamando sempre maggior numero di italiani alla vita pubblica; e in questo fu la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la largizione del suffragio universale. Perfino il favore col quale venne accolto da molti liberali, nei primi tempi, il movimento fascista, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell'inerzia e nell'indifferenza il grosso della nazione, appoggiandone taluni bisogni materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici o quetistici. Anche oggi, né quell'asserita indifferenza e inerzia, né gl'inadempimenti che si frappongono alla libertà, c'inducono a disperare o a rassegnarci. Quel che importa è che si sappia ciò che si vuole e che si voglia cosa d'intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia varrà, per ragioni di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile.» Per quantità e qualità delle manifestazioni di consenso l'Antimanifesto sbaragliò il Manifesto di Gentile. All’atto della sua pubblicazione recava, oltre alle firme del suo ideatore Croce e del suo co-ispiratore Giovanni Amendola, anche quelle di una quarantina di esponenti di spicco del panorama culturale italiano tra cui Sem Benelli, Carlo Cassola, Emilio Cecchi, Cesare De Lollis, Luigi Einaudi, Matilde Serao. Avrebbe inoltre in pochi giorni esponenzialmente incrementato le adesioni, arricchite di ulteriori nomi autorevoli (Sibilla Aleramo, Corrado Alvaro, Piero Calamandrei, Arturo Labriola, Eugenio Montale, Gaetano Salvemini) nonché di quelli di un nutrito drappello di docenti universitari di altissimo profilo, vedendo lievitare ad oltre quattrocento il numero dei sottoscrittori. Eppure sei anni dopo quei quattrocento oppositori al fascismo erano divenuti irreperibili. Molti di loro forse non si erano nemmeno resi ben conto dell'importanza dell'atto che avevano compiuto, e per questo più tardi lo rinnegarono con facilità. Gaetano De Sanctis attribuisce proprio alla volontà di invalidare il manifesto Croce l'iniziativa di Gentile del giuramento per i professori universitari. Delle centinaia di ordinari di tutte le università italiane che avevano apposto la loro firma solo undici, da Roma, Milano, Torino, Pavia e Perugia, confermarono in quella circostanza la loro contrarietà al regime. Solo costoro, assieme al nuovo aggiunto, Edoardo Ruffini, appena trentenne, rifiutarono di apporre la loro firma sotto queste parole: "Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l'ufficio di insegnante ed adempiere tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti la cui attività non si concilii con i doveri del mio ufficio." Ovviamente la scelta di giurare non fu decisa liberamente e a cuor leggero da una larga parte dei milleduecento che si assoggettarono. Non farlo equivaleva a perdere la cattedra, cioè per tanti l'unico mezzo di sussistenza. Farlo significava però cedere ad un umiliante ricatto, coprirsi di vergogna, perdere la libertà in cambio del mantenimento di una vita che si andava facendo sempre più infima. Il giovane professor Ruffini, espulso assieme al padre Francesco, usa nei suoi ricordi parole che fanno stringere il cuore: "Giurare o non giurare. Dilemma puramente accademico, perché fin dal primo giorno sapevamo che sarebbe stato no. Preoccupante, ovviamente, per motivi finanziari. Ma con qualche sacrificio abbiamo superato la crisi. Di quell'estate del 1931 ricordo le uggiose discussioni con colleghi decisi a giurare ma che volevano sentirsi dire che facevano bene. E noi glielo dicevamo con convinzione, consapevoli che per molti il giuramento era una scelta dolorosa e umiliante ma non libera, mentre il nostro rifiuto era agevolato dal privilegio di una sia pur modesta agiatezza..." E così tutti, a parte i dodici, giurano: giurano, seguendo il consiglio di Togliatti, gli accademici vicini alla sinistra, dandosi la motivazione che mantenendo la cattedra avrebbero potuto svolgere "un'opera estremamente utile per il partito e per la causa dell'antifascismo". Giurano la stragrande maggioranza dei cattolici. Giura padre Agostino Gemelli, "con riserva interiore". Vogliono giurare, e giurano, con l'eccezione di soli quattro docenti, anche i professori dell'Università Cattolica di Milano, per i quali il rettore Agostino Gemelli aveva ottenuto l'esonero in quanto non dipendenti statali, probabilmente appoggiandosi alle pretestuose ragioni sostenute dall'Osservatore Romano che in un articolo del 4 dicembre 1931 afferma la piena liceità del giuramento, dovendosi l'espressione "Regime Fascista" intendere equivalente a "governo dello Stato". Giura Pietro Calamandrei, per non lasciare l'università in mano ai fascisti. Giura Luigi Einaudi, seguendo l'invito di Benedetto Croce a rimanere nell'università "per continuare il filo dell'insegnamento secondo l'idea di libertà" e per impedire che la sua cattedra cada, secondo la sua espressione,"in mano ai più pronti ad avvelenare l'animo degli studenti". Qualcuno giura per non abbandonare i suoi studenti. Altri perché il giuramento non tocca la loro materia. Tra questi anche Edoardo Volterra, figlio dell'illustre matematico Vito, il quale invece non giurerà. Gaetano De Sanctis ricostruisce la vicenda senza lasciare alcuno spiraglio ad attenuanti verso i suoi colleghi: "Il Gentile continuò dicendo che aveva egli stesso escogitato il mezzo del giuramento per invalidare il manifesto Croce. "Lei sa bene che tra i firmatari parecchi hanno già disdetto la loro firma. Il giuramento le offre un mezzo di disdirla senza una palese ritrattazione." "Ma io", conclusi, quando dò la firma, la dò a ragion veduta e non la ritratto mai." Il Gentile espresse il suo dolore per la mia deliberazione, mi disse che egli mirava a liberare per mezzo del giuramento l'Università da politicanti e indicò alcuni nomi, ma che non si sarebbe mai aspettato che io fossi messo fuori dell'Università. Qui debbo dire che nella sua ingenuità non simulata egli si ingannava a partito, come spesso gli accadde nel giudicare gli uomini e le contingenze. Infatti i professori politicanti da lui indicati rimasero nell'Università, ed io credetti doveroso allontanarmene... Così di circa quattrocento firmatari del manifesto Croce, soltanto undici fecero onore alla loro firma. Tutti gli altri professori firmatari o non firmatari di quel manifesto, tra cui solo una piccola minorità di fascisti o di simpatizzanti, si coprirono di vergogna giurando." Lui invece, assieme ad altri undici, no. Incontra e si confronta con altri docenti decisi a non giurare: l'amico Ruffini, Giorgio Levi Della Vida, Ernesto Bonaiuti, Mario Carrara. Poi, a dicembre, invia la sua lettera di decisione al Ministro dell'Educazione Nazionale, che l'aveva invitato a non privare la scuola del suo contributo. Questo il passo saliente: "Mi duole quindi doverLe dichiarare che in questa occasione non posso ottemperare al Suo invito. Mi sarebbe infatti impossibile prestare un giuramento che vincoli o menomi in qualsiasi modo la mia libertà interiore, la quale io credo mio dovere strettissimo di studioso e di cristiano rivendicare, di fronte alle autorità statali, piena e assoluta." Una scelta radicale: la libertà in cambio di oltre un trentennio di insegnamento. Praticamente in cambio della vita. Una scelta irrinunciabile, irremovibile, ma costata indicibile sofferenza. De Sanctis, escluso da ogni organismo culturale - tranne che dall'Enciclopedia Italiana, dove continuò a curare la sezione di Antichità Classiche, per sostegno proprio di Giovanni Gentile che ne era il direttore - sarebbe stato reintegrato nel ruolo solo dopo la liberazione di Roma, nel 1944. Dell'Enciclopedia Italiana, poi conosciuta come Enciclopedia Treccani, sarebbe divenuto presidente nel 1947. Nel 1950 Luigi Einaudi l'avrebbe nominato senatore a vita. Ma nell'imminenza della sua scelta, pochi giorni prima di inoltrare la sua lettera di diniego al Ministro, annota nelle pagine suo diario segreto: "Vi sono giorni in cui viene meno ogni speranza terrena. Sembra che il dolore fisico ci opprima. Sembra che la vita, nel dolore, si dissolva. E frattanto attorno a noi si fa o a noi sembra si faccia il deserto. L'odio l'invidia la calunnia ci straziano a gara. Gli amici sono lontani. Forse ci hanno dimenticato. Forse ci hanno tradito. Tutto crolla. Il domani non è che tenebra. Pare che si sfascino gli organi dei sensi e lo spirito si sente chiuso in un carcere tetro. Ma c'è pure nella resistenza indomita che oppone al dolore e al male, nello sforzo d'accettare la volontà divina, non col porgersi ad esso passivo, ma attuandola in qualche modo in sé, ma identificandosi in qualche modo, attivamente, con essa, c'è una gioia intima e violenta e turbinosa. E la nostra notte s'illumina di divini bagliori."