Era il lontano 2011, e un amico col quale condividiamo da sempre calcio giocato, e anche musica e libri – pur riuscendo a non trovarci d’accordo su praticamente nulla di tutto ciò! – era riuscito a portarmi in Lituania per un torneo di pallone. Atterraggio a Vilnius con volo WizzAir, ultime luci del crepuscolo nonostante l’ora tarda, da noi in Sicilia sarebbe ancora propaggine d’estate e probabilmente anche a quelle latitudini doveva esserlo. Su alcuni manifesti rosso Russia, stelle comuniste e la scritta punkeggiante “Red Card”: larghi viali in una penombra traslucida perforavano umido e boschi di una città così lenta che quelle poche macchine sembrano sempre cercare pazientemente un parcheggio – oppure vagare smarrite. “Red Card” incollati sui muri fino a sotto l’ultimo cavalcavia che immetteva nei pressi di un vialetto nascosto davanti a un fabbricato anonimo: ci dissero che era il nostro hotel, il Green Hotel. Non sembrava, ma era proprio così. Una struttura imbellettata, con tanto di desk tipo quello di una reception vera, e con un indaffararsi spratico di qualche giovane in divisa che riusciva a parlare un inglese abbastanza sovietico. Chissà se in Lituania parlano il russo o giù di lì: il Baltico e poi pure la Finlandia di fronte, e la Polonia di lato, ti pare possibile che la loro sia una lingua comprensibile? Da queste parti bazzicavano i Prussiani se è vero che Kant viene considerato tedesco, il cielo stellato sopra Vilnius non si vedeva granché ma comunque lassù doveva pur essere, e la legge morale va a sapere dove si va perdendo al giorno d’oggi; nel frattempo qualcuno condivideva fumo e stanchezza fuori dall’ingresso per una cena che non sarebbe mai stata servita, e a malapena la colazione dell’indomani. Uno stravagante padre missionario italiano venne a salutare tutta la nostra delegazione, foto e risate, la Lituania vuole la pace assoluta, mi raccontò in poche battute, la sua storia è un tormento, Siberia e nazismo, arriverà anche l’euro al posto dei ‘litas’, finanza ebraica e intellighenzia polacca: Kaunas è più dinamica di Vilnius, tutto ciò che è russo crea diffidenza, leggi “Avevano spento anche la luna” di Sepetys (??), le donne veleggiano alte ed eleganti lungo strade quiete: questo è quasi tutto, saluti e in bocca al lupo. Domandai a Gintaras, biondo e candeggiato con una cravatta sgualcita, cosa fossero quei manifesti “Red Card” in giro per la città, mentre i miei compagni di squadra si erano infine arresi su delle sedie multicolor in plastica, ed attendevano le chiavi delle stanze. E niente, un gruppo punk, Gintaras – così c’era scritto sul cartellino - non seppe dirmi altro dietro la cortesia di spallucce agnostiche o indifferenti, una bambolina di cameriera sparecchiava e sfilava via imbarazzata tra le richieste di cibo o di qualcosa per esso mentre una comitiva sfatta con sembianze scandinave si intruppava per la notte. Il mio amico disse che quell’hotel, prima del nostro arrivo, doveva essere uno scheletro edile, riadattato giusto in quei giorni là soltanto per infilarci dentro ospiti da accomodare e da spremere: noi, per esempio, che ci avremmo dormito per tre notti come all’addiaccio, con brande lamentose dentro a stanzoni disadorni e con termosifoni pleonastici, che tanto con sei gradi notturni – ci dicevano – fa ancora tepore estivo. Noi che ci saremmo lavati con acqua gelida o color merda baltica, o che avremmo trafugato gallette militari e raschiato yogurt dal fondo di una latta promiscua pur di non restare senza colazione, tute dispari e miraggi di doccia e sogni di caffè, anche all’americana. Una delle due poliziotte che ci portava di prima mattina al campo si chiamava Ielena, le indicai un manifesto già molle dei “Red Card” nei pressi di un incrocio, mi disse che erano in tournèe da quelle parti, fece una smorfia di scarso gradimento, mentre una pioggerellina improvvisa invetriò quella mattinata buia: scoprimmo che l’impianto sportivo si ergeva di fronte a un cimitero protestante, profumo d’erba bagnata ed echi cirillici da un altoparlante solitario, e poi il brulicare di divise colorate verso l’ingresso principale, le prime birre e persino qualche panino carnoso, e risate, anche le nostre, intirizzite senza caffè e cibo decente dalla sera prima. Il boato di un campo coperto sovraffollato, e palloni ovunque, schiamazzi e fischietti e un microfono a ripetere qualcosa compulsivamente, subito partì un brano ska del quale non comprendevo le parole ma trascinava parecchio, e poi la mano di Ielena sulla spalla e i suoi occhi rivelatori: ghiaccio espanso. “Red Card”, mi fece capire, dito in su e testa a ritmo. Bandiere lituane sugli spalti, e sulle vetrate secchiate d’acqua piovana, cellulare in aria e colpo di Shazam: ma niente da fare. Poi il torneo cominciò, e a quarant’anni suonati mi toccò giocare qualcosa tipo otto o nove partite in due giorni, roba che se lo avessi saputo – pur con tutta la passione calcistica condivisa – avrei comunque detto si: ma mi sarei detto pazzo da solo. Quando finì, portammo i nostri muscoli schiantati fin dentro la sera medievale del centro, alla ricerca di birra e cibo commestibile, le stelle di Kant erano finalmente visibili e grondavano come resine e acido lattico. Seppi che i “Red Card” suonavano al Rock River Club, di là dal fiume Neris, ma noi eravamo già a Riga, da un paio di giorni scarsi, prima di volare Baltic Air, con scalo a Roma, fino a casa. Avevo poco più di quarantun’anni, in quel settembre 2011, e se qualcuno mi avesse detto che sarei stato invitato a giocare a calcio in un torneo internazionale, nella ex Unione Sovietica, beh, gli avrei detto: “Magari!”. Ben sapendo che, pur con tutto l’allenamento del mondo, otto partite (da venti minuti) in soli due giorni sarebbero state comunque un massacro muscolare, osseo e pure articolare. Mi viene in mente quella bellissima frase de “L’immortalità” di Kundera, quella che ci descrive tutti come degli esseri senza-età per la maggior parte della nostra esistenza; e poi anche quella di Borges, secondo cui chiamiamo ‘caso’ la nostra incapacità nel comprendere l’immenso meccanismo delle casualità. E così, la telefonata in ufficio del mio amico di sempre, e quell’invito strambo e insperato, e quella avventura baltica, dentro la ex cortina comunista, calcio e on the road tra Lituania e Lettonia, in bilico tra affrancamento e scomodi retaggi, palazzoni grigianonimi e sfavillanti ultramodernità: guardo i miei calzettoni tipo apemaia, quelli trafugati in un centro commerciale, quelli della nazionale di casa, giallorossoverdi a strisce orizzontali, e penso all’inno nazionale, alla birra a colazione, alle contestazioni in inglese, ai lividi e al gelo estivo, alle infantili esultanze, e alla galleria di facce e bandiere ora indistinte. No, non c’è un’età, comunque in quel momento non ci pensavo. Kundera ha ragione. Quanto a Borges: entro in un bar di Catania, dietro il Tribunale. Mi sono fermato a prendere un caffè volante con un amico, col quale ho condiviso calcio e assunzione al lavoro, stesso lavoro. Virgin Radio dispensa rock da un paio di piccoli altoparlanti, fili penduli ai lati dei ripiani, la voce del deejay ridacchia qualcosa, poi – mentre litighiamo per chi deve pagare – parte quello ska. Si, proprio quello. Il mio amico si ferma anche lui, ma a guardare me, mentre imbraccio di nuovo il cellulare, e colpo di Shazam: ed ecco che stavolta appare. “Red Card - All together”, finalmente devono averli messi su iTunes o quelle robe simili. “Tranquillo…”, gli dico, “…piacevoli coincidenze, ricordi...”.
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