Dal campo si esce in barella. Questo dicevano, un tempo, gli allenatori di rugby ai propri giocatori. Forse perché c’era l’idea che lo sport con la palla ovale dovesse essere praticato solo da “veri” uomini, e i “veri” uomini, si sa, muoiono piuttosto che arrendersi. Una concezione che probabilmente si è tramandata negli anni in quanto fino al 1968 non erano ammesse sostituzioni (da quella data in poi la Federazione internazionale ne ammise solo due e solo in caso di infortunio). Per fortuna, oggi, non è più così. Adesso in panchina siedono 7 giocatori (8 per gli incontri internazionali e per quelli dell’alto livello) e durante la partita tutti possono subentrare ai 15 in campo, non solo in caso di infortunio ma anche per scelta tecnica. Dal 1995, con l’apertura del rugby al professionismo, si sono inoltre moltiplicati gli incontri che si disputano, sia a livello nazionale che internazionale, e, trattandosi di uno sport duro e di contatto, gli infortuni sono diventati purtroppo una consuetudine. Negli anni si è constatato come, con l’aumento dei minuti giocati per stagione, siano diventati sempre più frequenti e sempre più gravi. Si è così cercato di porre rimedio al problema cambiando alcune regole (il rugby è uno degli sport che negli ultimi anni ne ha più di altri cambiate) e prestando più attenzione al contatto tra giocatori. Ad esempio si è cambiata la regola di ingaggio in mischia, in quanto ci si è resi conto che una delle cause di problemi alla schiena era proprio legata al contatto dei giocatori di prima linea. Oggi, almeno teoricamente, le prime linee ingaggiano quasi da ferme, mentre fino a qualche anno fa il contatto tra i primi sei giocatori del pack era duro e violento. Un altro aspetto cui si sta prestando sempre più attenzione è quello relativo ai traumi del collo e della testa. In questo ambito le regole sono precise e ferree: se l’arbitro ha appena il sospetto che un giocatore abbia ricevuto un colpo deve immediatamente arrestare il gioco per consentire allo stesso di uscire dal campo ed essere sottoposto a una procedura medica per accertare se il giocatore sia in grado di riprendere il gioco o meno. Qualora il medico non dovesse consentirgli di ritornare in campo, il giocatore non potrà allenarsi per almeno una settimana e poi, prima di ritornare alla normale attività, dovrà ricevere l’autorizzazione di uno specialista a iniziare il programma di Ritorno Graduale alla pratica del Gioco. E siccome prevenire è meglio che curare, per ridurre al minimo il pericolo di commozione cerebrale, la Federazione suggerisce con sempre maggiore forza l’uso del caschetto protettivo, soprattutto ai giocatori più giovani. Addirittura, per eliminare del tutto ogni problema legato agli infortuni, in Inghilterra si sta facendo sempre più insistente la proposta di abolire il contatto fisico e il placcaggio nelle partite di minirugby. Certo che, sostituire il placcaggio con il tocco (in realtà il Rugby Touch è uno sport che si pratica già), significherebbe snaturare del tutto lo spirito del gioco. Non c’è dubbio però che, soprattutto in questi ultimi anni, si è molto lavorato per la salvaguardia della salute dei giocatori e si deve continuare a farlo ancora. Perché, se oggi, per fortuna, nessun allenatore direbbe più ai suoi giocatori di “morire” sul campo, si deve lavorare perché, giocando, ci si faccia male il meno possibile. La strada imboccata è, comunque, quella buona.
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