Che poi uno si sente un po’ come D’Artagnan, un guascone che va alla ricerca dei suoi vecchi compagni perché ne ha abbastanza della trivialità del quotidiano e ha sete, una sete disperata, d’avventura. E una specie di avventura fu veramente quella iniziata vent’anni fa quando si decise di creare una delle prime, se non la prima, rivista online della provincia più meridionale d’Italia. Proprio nella città più a sud di Tunisi un gruppo di amici decise di fare una cosa vecchia e al contempo nuova: un giornale su internet che unisse la praticità (e economicità) offerte da una nuova tecnologia alla struttura di un mensile tradizionale (uscita rigorosamente il 14 luglio, impaginazione secondo i crismi della composizione tipografica, linea editoriale che ruotasse ogni volta su un concetto o una parola specifica ecc.). Ma no, non si pensava che potesse durare tanto (fino al 2019): si cominciò a camminare con la convinzione di non lasciare nulla dietro le spalle e soprattutto di avere davanti un deserto, un futuro tutto da esplorare . E quel territorio fu attraversato ora guadando fiumi dalla portata enorme per facondia di idee e moltitudine di compagni di viaggio, ora trascinandosi quasi in solitaria sul letto prosciugato di un vecchio torrente, angosciosamente in secca, senza stimoli. Ma bastava scollinare e si riaprivano spazi immensi, folle di nuovi amici che ridavano senso alla nostra quête.
Nel corso degli anni tante volte si è vissuto questo alternarsi di anni di carestia e anni di abbondanza: hanno scritto per Operaincerta.it centinaia di persone, ognuna con la propria personalità, sono state raccontate le vite e le esperienze di una grande quantità di gente, si sono stretti fortissimi legami tra le donne e gli uomini che avevano fatto parte di questa avventura… ma come si suol dire: “ogni jornu felici havi la so’ sira”. Perché le cose non restano mai uguali.
A naso il mondo del 2023 e quello del 2003 è cambiato e cambiato di molto. La tecnologia è entrata nella vita di ognuno di noi in maniera subdola e totalizzante. Il passatempo è divenuto business e certo business ha distrutto cose e persone. Il fenomeno social, e non solo, è tanto pervasivo, esistenziale ed essenziale che sarebbe incomprensibile per l’uomo della strada di due decenni fa. La medicina ha fatto i suoi progressi, si è ripreso a considerare il cosmo il Lebensraum degli umani, non c’è più (e questo da qualche anno) il Silvio nazionale. Ma poi a osservare a volo d’uccello gli eventi di quell’anno si fa fatica a comprendere se si è nel 2003 o nel nostro 2023: attentati in Medioriente, guerre qui e lì, crisi di governo, rapimenti di missionari in Africa patapim patapam… “Munnu ha statu e munnu è”, poco ma sicuro, ma il mondo di oggi ha visto costruire al suo interno una serie di interconnessioni, di flussi e riflussi, di spinte all’anarchia e di ritorno all’ordine che non sempre quello che appare essere è. Ciò che è progresso è veramente progresso? Cos’è conservazione? Quando si è smesso di sognare di prendere a pugni il cielo? I sussulti del Friday for Future si sono sgonfiati appena l’establishment ha avvertito della catastrofe imminente causata da pandemia e da guerra in Ucraina; la gente si è vista minacciare nei propri beni di conforto e ha accettato il nuovo ordine: possiamo inquinare di più, costruiamo le centrali nucleari, rinviamo di un po’ l’appuntamento con la fine del mondo… Siamo fatti così: bella e romantica la rivoluzione, ma Tik tok, Insta e, per i più attempati, Facebook non si toccano, ché il superfluo è ormai da tempo l’indispensabile e l'indignazione è un bene di consumo con su scritto "da consumare preferibilmente entro...". E qualcosa di simile vale per il Me too, per Black Lives Matter, per Giulio Regeni e per le tante rivendicazioni che in questi anni sono nate. È un mondo simile a quello degli anni ottanta: un po’ stanco e abbandonato al riflusso, all’edonismo egonmuskiano? Può essere, non so, è materia di sociologi acuti, ma se la storia si ripropone ciclicamente, talvolta lo fa in maniera molto più cinica: indifferenza per le tragedie “normali”, coinvolgimento morboso verso quel che i mass-media ci rappresentano come emotivamente coinvolgente; il lontano è meno importante di quel che è a noi vicino, ma lontano e vicino non sono concetti spaziali, sono concetti emotivi: un'alluvione in Nebraska è cosa nostra, più di una in Armenia, un incendio devastante in Marocco è avvertito come più lontano rispetto a uno in California. Vicino vuol dire “prossimo”: l’America è avvertita come il cuore di un impero le cui provincie siamo noi, ognuno di noi, ogni individuo. Basta!
Quindi perché il vecchio D’Artagnan ibleo si è messo in cammino alla ricerca dei suoi Athos, Porthos e Aramis? Perché distogliere gli ex moschettieri dai loro intenti, dalla loro esistenza filistea? Non si fa fatica a immaginare un Athos che manda a quel paese l’amico d’un tempo con parole più o meno ricercate, o a immaginare un Aramis che sorridendo accetta la nuova sfida. Porthos? Porthos avrebbe chiesto senza nemmeno tanta convinzione se ci fosse qualcosa da mettere sotto i denti. Tutti per uno e uno per tutti. Perché dunque? Perché se c’è una cosa che Operaincerta.it ha saputo sempre coltivare è l’ironia, l’autoironia che trasforma l’impasse in una nuova storia da raccontare, che fa tirare fuori da un cappellaccio a larghe falde e piumato una soluzione d’emergenza. Questo fa colui che non si prende sul serio, chi si diverte con le parole e le trasforma in occasioni di riflessione.
E riflettere sorridendo sui cambiamenti occorsi è cosa meravigliosa. Venti anni: oggi che abbiamo pochi capelli, in compenso alquanto incanutiti, ci illudiamo di sentirci sempre uguali, sempre giovani, giovani dentro, pensiamo (più o meno) le stesse cose, vediamo le stesse persone, sorridiamo allo stesso modo, anche se con meno denti, abbiamo rughe e acciacchi vari. Ma si sa “il tempo è un ottimo medico di famiglia, ma un pessimo chirurgo estetico” e questo in epoca di social è importante, molto importante.
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