Erano gli anni in cui scoprivo la Francia. Mi ci ero trasferito da poco e cercavo di adattarmi a quel nuovo, strano paese dove si manifesta a colpi di molotov e la pasta è considerata un contorno (ed è pressoché sicuro che tra le due cose ci sia una misteriosa correlazione). Per me era un periodo di cambiamenti in cui avevo l’impressione – ancora presente per la verità - che giorno dopo giorno la mia lingua d’origine mi scappasse di mano come un’anguilla e s’imbastardisse d’influenze galliche. La scrittura era il mio modo di tenerla ben salda per la coda, e anche di fare i conti con le mutazioni che in quel momento mi stravolgevano la vita.
Quelli di Operaincerta non ricordo più come li ho conosciuti - amici comuni, probabilmente - ma quando ho proposto loro un paio di racconti che tenevo nel cassetto, non si sono fatti pregare per pubblicarli, anzi, mi hanno chiesto di scrivere cose nuove. Da quella collaborazione nacquero alcuni articoli sulla società francese che andavo osservando, poi qualche vignetta: fotomontaggi photoshoppati, sulla falsariga di quelle già pubblicate da Carlo Occhiostrabico.
Col passare del tempo presi confidenza col giornale, coi redattori ragusani, e cominciai a sentirmi parte della famiglia di Operaincerta: a dire il vero mi sentivo più il cugino emigrato, quello degli auguri telefonici natalizi alle tre di notte per via del fuso orario, ma sempre famiglia era. Mi piacevano le loro riunioni di redazione a base di formaggi, salumi e scacce ragusane. Ogni tanto provavo pure a partecipare a distanza, ma all’epoca non c’era ancora la tecnologia smartworking post covid di oggi e comunicare in quel modo era una gran fatica. In un paio d’occasioni però ebbi modo di rifarmi, quando le riunioni si tennero durante le mie ferie nel ragusano. Con una scaccia sotto i denti era tutta un’altra cosa.
A un certo punto, non ricordo più come né perché, cominciai a scrivere la storia di uno che lasciava la Sicilia per seguire una ragazza in Francia. L’ispirazione autobiografica era abbastanza chiara; preso dall’entusiasmo di raccontare una storia che conoscevo ma inconsapevole dei guai in cui mi stavo cacciando, proposi alla redazione di pubblicarla a puntate, come i vecchi romanzi d’appendice. Ne seguirono giorni, mesi, anni di angosce: per me, che ogni volta, non sapendo bene come continuare la storia, rimandavo la scrittura all’ultimo momento sperando in un’ispirazione che non arrivava mai e imbastendo a fatica un seguito che teneva in piedi a malapena; e per i poveri Meno e Carlo, costretti ad aspettare il mio episodio mensile per finire l’impaginazione, che spesso si ritrovavano a lavorare fino a tarda notte per rispettare la scadenza. Ancora oggi fatico a spiegarmi come abbiano fatto a tenere duro tutto quel tempo, ma immagino il loro sollievo quando un bel giorno, finalmente, la storia di Giulio arrivò alla sospirata conclusione.
Il lato positivo di tutta questa storia, almeno per me, è che l’esperienza con Operaincerta mi ha spronato a scrivere di più, meglio, in condizioni spesso estreme. Questo lo devo alla lungimiranza e alla pazienza degli amici della redazione. D’altro canto, però, c’è da considerare che la maledetta storia di Giulio, anche dopo la fine del feuilleton on line, me la sono portata dietro per tutto questo tempo: correggendo, riscrivendo e rimaneggiando il testo senza fine. Una specie di tela di Penelope ossessiva; una maledizione che mi perseguita da vent’anni.
Questo, realmente, devo agli ‘amici’ di Operaincerta!
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