29 giugno 1916. San Martino del Carso.
Il XIX Battaglione Fanteria della Brigata Brescia viene falcidiato dal gas nervino austriaco.
Le brulle doline carsiche sono costellate di morti, le trincee e i rifugi, le pietraie lunari rese scarne dalle artiglierie.

Ne parla (e ne scrive) Massimo Bubola, nel suo Ballata senza nome, sorta di ‘Spoon River’ italica dedicata al milite ignoto. 
Massimo Bubola, oltre che grande chitarrista e compositore, legato a doppio filo ad alcune delle opere più brillanti di Fabrizio De André, è uno storico riconosciuto nell’ambito della Prima Guerra Mondiale. Il suo capillare e devoto lavoro di ricostruzione umana, il suo vagare tra le postazioni belliche, quella febbrile ricerca di lettere e dispacci al solo scopo di tramandare gli orrori di una guerra che, per noi italiani sulle Dolomiti, fu una consegna al massacro: tutto questo suo lavoro, dicevo, è un’impresa di dissepoltura della memoria più lontana, con una dedizione quasi archeologica.

<< […] Nel nostro inferno ci sono baionette e bombe, mitraglie e fucili, cannoni, munizioni, fili spinati, camion, catrame, carburante e carbone per fare un fuoco eterno e cucine da campo e dannazione di cavalli morti da squartare e nessuna bottiglia di vino rosso da bere e lunghi coltelli e diavoli con le stellette che escono che sembrano usciti dalle viscere della terra dove tutto si liquefà in un letamaio di ordini avvelenati che ci impongono di distruggere e corrompere tutto, bruciando ed eruttando come il culo di Satana in queste trincee… >> [1]

Sono descrizioni che fanno rimando non soltanto a Masters, ed alla sua Antologia di Spoon River [2] (cui anche De André si ispirò, per il suo album del 1971, Non al denaro non all’amore né al cielo), ma anche – per le oscene insensatezze dell’animo umano – al ben meno indulgente Louis-Ferdinand Céline, soprattutto nel suo Viaggio al termine della notte: << La grande sconfitta, in tutto, è dimenticare, e soprattutto quel che ti ha fatto crepare, e crepare senza capire mai fino a qual punto gli uomini sono carogne […] >> [3]

In quello stesso pomeriggio, le compagnie rimaste in retrovia venivano giù dal Monte San Michele, sotto a una pioggia purificatrice, inconsapevoli di quella strage, di quei commilitoni sterminati – in vece loro -senza poter opporre una minima resistenza organizzata, senza alcuna speranza di scampo. Giovani innocenti strappati alla vita senza mezzi e senza consapevolezza. << […] È così dura sbarazzarsi di se stessi, in guerra! >> [3]

Tra quei soldati di retrovia, rientrati a Mariano del Friuli e completamente all’oscuro di quella strage, vi è un giovane letterato, corrispondente per il giornale di trincea Sempre avanti, arruolatosi nel novembre 1915 aderendo alla campagna interventista del governo italiano.
È nato in Egitto, ad Alessandria, nel 1888, e lì è rimasto fino all’età di 24 anni, quando è volato fino a Parigi per frequentare la Sorbona e il Collège de France, stringendo amicizie con Apollinaire, Picasso, Modigliani, De Chirico, Palazzeschi e Papini, e pubblicando poesie d’ispirazione futurista. 
Con lo scoppio della Grande Guerra, decide di partire per il fronte.
Sicuramente la sua scelta è dettata anche dalla legittima aspirazione – per lui esule – di divenire un ‘italiano di popolo’. Probabilmente, il suo anarchismo giovanile e intellettuale lo spinge (un po’ alla Byron) a tentare di comprendere meglio il rapporto tra guerra e poesia, tra morte e interiorità.


Ma quei fatti del 29 Giugno del 1916, dopo l’esperienza vissuta tra topi, ossame, ghiaccio stenti e disumanità, e dopo quella discesa dal Monte San Michele, sotto la scrosciante pioggia alpina in una minuscola parentesi di flebile felicità, lo ripiombano dentro a un incubo, sull’orlo del collasso, in una oscurità tremante e cosmica.
Il giovane letterato si chiama Giuseppe Ungaretti.
Egli verga febbrilmente tutto il senso di precarietà in un anelito intimo, in una invocazione asciutta, cui dapprima dà il titolo di Soldato. Poi – ed è il 15 Luglio – quello di Fratelli.

Di che reggimento siete
fratelli?
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli

Fratelli è una parola dalla profondità stravolgente, è suono dell’anima, è un fiotto ancora vivo, è l’aspirazione tremante a un anelito universale, sgorgati tra le macerie dell’umanità, dentro a rocce eterne e nude, laddove si diventa anonima carne da immolare, lapide, croce, buca, fiore, ricordo fatuo. Retorica.
E il verso di Ungaretti è scarno, fatto di immagini intense, “…dovevo dire in fretta, perché il tempo poteva mancare…”, scriverà parecchi anni dopo. D’altro canto, il suo linguaggio risente della estemporaneità, del buio squarciato,dell’inchiostro sangue su margini di giornale, su brandelli di bende, su spazi bianchi di lettere e cartoline. Anche la poesia “Soldati” è dello stesso periodo, lirica e angosciante.


Echeggia il Leopardi de La ginestra [3] in questo richiamo alla solidarietà tra uomini per reagire alle ingiustizie della natura (<<…negli alterni perigli e nelle angosce / della guerra comune. […] >>). Quel Leopardi che gli arrivò fino alla École Artistique Jacot, a Alessandria d’Egitto, sotto forma di riviste di poesia (“Mercure de France” e “La Voce”), lette insieme all’amico Mohammed Sceab; e quei versi, << Nobil natura è quella / che […] grande e forte / mostra se nel soffrir, né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi…>> [4]


E, come se non bastasse, anche il Tolstoj di Guerra e pace, ci descrive lo stato d’animo dell’uomo che si trova davanti alla morte d’un suo simile, a quella lacerazione intima, a quella ferita interiore che travalica il senso di orrore, all’impatto straziante della cessazione di una esistenza. La stessa che fa aprire Ungaretti, ‘foglia tremante’ verso il cielo. << […] L’amore impedisce la morte. L’amore è vita. […] È solo questo che tiene insieme tutto quanto. […]>> [5]


E di questi tempi, in cui la guerra ha odore di gas e petrolio, il suono della moneta, le griffe delle stoffe, la velocità dell’informazione, ma anche il fumo delle macerie, l’imperativo propagandistico delle nuove crociate è quello di mandare a morire gli ultimi, in nome di bandiere ideali e di fini sempre più alti & nobili. 
Gli scacchieri sono mossi da mani di burattino, con fili invisibili.


Non vi può davvero essere via d’uscita, se non con gli occhi della meraviglia e quell’attenzione incerta, di chi spera in residui di umanità, accogliendo l’altro davvero come un fratello. 

Ma c’è ancora qualcuno, oggi, che va cercando la meraviglia nella fratellanza?

<< …e se furon due guardie a fermarmi la vita, / è proprio qui sulla terra la mela proibita, / e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato, / ci costringe a sognare in un giardino incantato…>>
(Fabrizio De André, Il blasfemo – da Non al denaro non all’amore né al cielo[6]

Riferimenti bibliografici:
– Giuseppe Ungaretti, “Allegria di naufragi
– [1] Massimo Bubola, “Ballata senza nome
– [2] Edgar Lee Masters, “Antologia di Spoon River
– [3] Louis Ferdinand Céline, “Viaggio al termine della notte
– [4] Giacomo Leopardi, “La ginestra o Fiore del deserto
– [5] Lev Tolstoj, “Guerra e pace
– [6] Fabrizio De André, “Non al denaro non all’amore né al cielo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *