Da Gramsci a Calvino, la «matria» per la fraternità dei popoli

Come per una formula magica, basta pronunciare i nomi di Jacob (1785-1863) e Wilhelm Grimm (1786-1859) per un tuffo nell’infanzia e nel mondo delle favole, tra i personaggi resi ancora più celebri dalle animazioni di Walt Disney. Eppure nulla di tanto rientrava nei piani dei due fratelli, giuristi prestati alla filologia per raccogliere storie popolari che tutto erano, in origine, fuorché tenere fiabe per bambini.

C’erano una volta due di nove fratelli, dunque, studenti di Legge per volontà della madre, una vedova che sognava per loro la professione del marito avvocato. Rigoroso e concentrato nello studio l’uno, più estroverso e socievole l’altro, Jacob e Wilhelm si appassionano alla storia e alla cultura popolare, da allievi di Friedrich Carl Von Savigny (1779-1861), condividendone il pensiero avverso al giusnaturalismo e all’accezione astratta del diritto positivo; e individuando piuttosto le fonti del legislatore nella storia e nelle consuetudini e pratiche del Volksgeist, lo «spirito del popolo» quale unità organica, secondo l’interpretazione diffusa dal Romanticismo. Sulla lezione di Savigny, i Grimm si dedicheranno allo studio della lingua quale sedimento storico e culturale del popolo germanico, ai fondamenti della linguistica tedesca (è attribuita a Jacob la «legge di Grimm», ovvero la prima mutazione delle consonanti occlusive in fricative, quale conseguenza del contatto con i popoli indoeuropei), alla ricerca di parole e suggestioni filologiche, parlando essi stessi otto lingue tra classiche e contemporanee, e attraverso scambi epistolari tra New York, Mosca, Napoli, Grecia, Irlanda e Armenia – ricostruiti mirabilmente dai curatori del Grimmwelt, il Museo di Kassel – fino alla stesura del primo dizionario nazionale. Parallelamente e nel medesimo solco, si ergeranno a raccoglitori di fiabe e racconti ereditati dalla tradizione orale, pervenendo alla pubblicazione delle Fiabe del Focolare (Kinder Und Hausmarchen, 1812), riconosciute dall’Unesco nel 2005 tra i patrimoni dell’umanità.

Il materiale narrativo proveniva dalle ricerche eseguite per lo scrittore Clemens Brentano (1778-1842), che avrebbe ceduto ai due il progetto di un’antologia di favole: in particolare, dalla trascrizione delle testimonianze di anziane, domestiche e balie, dai racconti di Dorothea Viehmann, la Marchenfrau, figlia di un locandiere di origini francesi; di Dorothea Wild, amica di famiglia e moglie di Wilhelm dal 1825, e in generale delle donne dei villaggi tra Kassel e Gottingen, dove i Grimm avevano insegnato all’università locale fino all’adesione libertaria al Manifesto dei Sette, firmato con altri cinque colleghi contro l’abolizione della Costituzione da parte del re Ernesto Augusto I di Hannover e costato la cacciata dalla sede accademica nel 1837. I due fratelli non si perderanno d’animo: continueranno a insegnare a Berlino e la pubblicazione del dizionario (1838) concorrerà a ristabilire le loro finanze, mentre il laboratorio editoriale delle Fiabe conoscerà frattanto ben sette edizioni fino al 1857.

Infatti, l’accoglienza tiepida della prima pubblicazione aveva imposto una revisione radicale circa la destinazione agli adulti, ravvisando l’inadeguatezza ai bambini: si pensi che nella versione del 1812, sono madri biologiche e non matrigne quella di Biancaneve bambina, che vorrebbe cucinarsi il fegato e i polmoni della figlia di sette anni (!), nonché quella di Hansel e Gretel, che li manda nel bosco per sbarazzarsene, perché il cibo in casa non basta a sfamarli. E ancora nel primo finale di Biancaneve, il principe compra la bara di cristallo, scatenando la collera dei servitori per l’ordine di portarla al castello, tanto da aprire il coperchio, imprecare contro la ragazza e assestarle un colpo, che le farà tornare su il tocco di mela avvelenata e la risveglierà dall’incantesimo. È verosimile che alcune versioni riflettano le cronache di indigenza e crudeltà di certe narrazioni contadine, pervase talvolta di implicazioni sessuali tra erotismo e violenza: Raperonzolo si intrattiene con il cavaliere, con l’esito di una gravidanza gemellare; e a svegliare la Bella addormentata è un bebé affamato, figlio della lussuria del re dinanzi allo stato di incoscienza della ragazza. Per soddisfare dunque il gusto del pubblico borghese, le esigenze dei più piccoli e assicurare le vendite, i Grimm lavorarono alla riscrittura, eliminando le note filologiche che appesantivano i testi e soprattutto gli eccessi di violenza e turbamento, edulcorando le storie e puntando piuttosto alla poesia naturale, alla meraviglia e all’affabulazione.

Salvare dall’oblio i racconti della tradizione, anziché istituire un canone come il francese Charles Perrault (1628-1703) o creare nuove favole come il danese Hans Christian Andersen (1805-1875), era l’urgenza dei due fratelli, come si legge nella prefazione del 18 ottobre 1812. La scelta della metafora cade sulle spighe sopravvissute alla tempesta, che in giugno ricolmeranno i campi dorati per la raccolta: allo stesso modo, poiché i cantastorie vengono meno e con essi la consuetudine al racconto orale, le fiabe potranno riempire i granai delle comunità solo se opportunamente trascritte. Esse racchiudono la purezza della natura meravigliosa dei bambini e laddove la fantasia e l’«innocente familiarità tra le cose più grandi e le più piccole» resistono alle storture della vita,«la loro stessa esistenza basta a proteggerle». Non devono essere d’insegnamento, piuttosto «il loro senso cresce in modo spontaneo, come un frutto buono da un fiore sano, senza l’intervento dell’uomo», a dimostrazione che la poesia esiste se ha relazione con la vita, in ogni tempo e in ogni paese, così per le tradizioni tedesche, inglesi, scozzesi e irlandesi. Sorprende il plauso dei Grimm per l’esperienza italiana: «Più ricche di tutte le altre sono le antiche raccolte italiane, innanzitutto le Piacevoli Notti di Straparola …e più ancora il Pentamerone di Basile (…) scritto in dialetto napoletano, è sotto ogni aspetto un libro straordinario. Il contenuto è quasi privo di lacune e senza aggiunte posticce, lo stile accompagna il racconto con belle frasi». L’omaggio è al Cunto de li cunti overo lo trattenemiento de peccerille (1634-36) di Giambattista Basile (1583-1632), opera letteraria seicentesca che coniuga la formula per l’intrattenimento cortigiano alla funzione culturale del racconto popolare, attraverso la ricerca tra fonti classiche (il romanzo greco, la narrativa barocca, gli exempla tardomedievali, la novellistica umanistica, il teatro di strada e di piazza), leggende e suggestioni del territorio, che l’autore riconobbe in Lucania, mentre era governatore di Lagonegro al servizio di Galeazzo Pinelli, duca di Acerenza. Nei Cunti la semenza narrativa fatta di mistica e mistero, verità e diceria, fede e magia, si arricchisce del fascino del paesaggio, elevandolo a luogo ideale dell’incanto, dove l’impossibile nella realtà è possibile nella fiaba. E i fratelli Grimm ne compresero così tanto il valore da attingere ampiamente al repertorio di Basile: alla sua Gatta Cenerentola si ispira Cenerentola; da Ninnillo e Nennella e da Cagliuso prendono spunto rispettivamente Hansel e Gretel e Il Gatto con gli stivali; Raperonzolo è l’evoluzione di Petrosinella; e Sole, Luna e Talia insieme alle atmosfere del Pollino e al Dolce dorme/Cozzo della Principessa, una delle sue cime montuose, sono senza dubbio materiale vivo perla Bella Addormentata.

La «polifonia» (C.Miglio) dei Kinder und Hausmarchen è ravvisabile nella variegata collazione delle fonti, nelle diverse voci femminili che riversarono le narrazioni orali, nella ricerca filologica e linguistica dei Grimm, nell’ultradecennale durata del cantiere editoriale; e contiene le premesse alla codificazione strutturale negli studi di Vladimir Propp (1895-1970), alla definizione delle trentuno «funzioni» che articolano le trame delle fiabe russe e suffragano la scienza dell’universalità del racconto. Secondo Propp, la struttura delle fiabe ripete quella degli antichi riti ed è sopravvissuta a essi come rielaborazione dei narratori, quasi il sacro avesse ceduto posto al laico, proiettando dal ragazzo preistorico al bambino storico l’esperienza dell’iniziazione alla vita. In aiuto del lettore svagato o meno avvezzo a districarsi nei labirinti della narratologia e della critica letteraria, con brillante invenzione Gianni Rodari (1920-1980) ribattezzerà le funzioni come le Carte di Propp, quasi il loro assortimento preordinato o casuale fuori dal mazzo da gioco aprisse a un numero infinito di storie e di combinazioni possibili dell’impossibile e viceversa.«Si ha la sensazione che nelle strutture della fiaba il bambino contempli le strutture della propria immaginazione e nello stesso tempo se le fabbrichi, costruendosi uno strumento indispensabile per la conoscenza e il dominio del reale», e allenando la fantasia e il linguaggio con l’ascolto.

La dimensione di tale universalità era stata intuita dai Grimm, nella «fraternità» di studi e intenti per la raccolta di tradizioni popolari, proprie della «patria» culturale ideale secondo l’estetica romantica, avulsa dalla pretestuosa propaganda nazista, come ha chiarito la rilettura di Bruno Bettelheim (1903-1990), psicanalista ebreo sopravvissuto alla Shoah, che difese le Fiabe del Focolare dalle censure degli alleati, sostenendone la riammissione nella storia della letteratura. Dentro quella continuità storica e territoriale vi è dunque la prova che la cultura non è il privilegio delle classi alte, ma può essere anche il prodotto del pensiero del popolo, la creazione artistica di un autore collettivo – il Volk di fratelli –  come per la fiaba.

A integrare questa intuizione sulla fraternità ideologica nell’opera dei Grimm furono anche gli scrittori Antonio Gramsci (1891-1937) e Italo Calvino (1923-1985). Il primo, per disciplina nello studio durante la prigionia inflitta dal regime fascista, tradusse ventiquattro fiabe, con il proposito di inviarle ai figli della sorella. Il regolamento carcerario tuttavia impedì la consegna e l’opera fu pubblicata postuma, nell’ambito dell’edizione deI Quaderni del Carcere(1932), che avrebbero dovuto raccogliere le riflessioni sugli studi di tedesco, linguistica e sulla Divina Commedia. Nella traduzione gramsciana dei Grimm è stata individuata la teoria della traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici, ovvero un atto politico verso l’ipotesi della condivisione ideologica tra popoli diversi, la fratellanza opposta alla guerra e l’affermazione di una cultura «nazional-popolare». Il secondo, curatore della raccolta Fiabe Italiane (1983), pur prendendo in un certo modo le mosse dal modello scientifico dei Grimm, rilevò che “proprio ‘scientifici’…non furono, ossia (…) sulle pagine dettate dalle vecchiette i Grimm lavorarono molto di testa loro, non solo traducendo gran parte delle fiabe dai dialetti tedeschi, ma integrando una variante con l’altra, rinarrando dove il dettato era troppo rozzo, ritoccando espressioni e immagini, dando unità di stile alle voci discordanti”. Così, Calvino ammette di volere piegare «la naturale barbarie della fiaba a una legge di armonia», e «scegliere da questa montagna di narrazioni…le versioni più belle, originali e rare; tradurle dai dialetti in cui erano state raccolte; arricchire sulla scorta delle varianti la versione scelta, quando si può farlo serbandone intatto il carattere, l’interna unità, in modo da renderla più piena e articolata possibile; integrare con una mano leggera d’invenzione i punti che paiono elisi o smozzicati; tener tutto sul piano d’un italiano mai troppo personale e mai troppo sbiadito».

Più recentemente, ad approfondire gli sviluppi antropologici della fiaba, del lavoro dei Grimm e non solo, è stata la Prof.ssa Laura Marchetti, docente di Didattica generale e metodologia innovativa presso l’Università Mediterranea di Reggio Calabria, che ha individuato nella fiaba il «veicolo di un messaggio egualitario», l’evocazione di un universo eversivo che ammette il capovolgimento della realtà. I valori sottesi alla fiaba sono la la fratellanza di singoli e di popoli, come legame di sangue o alleanza per contrastare le avversità; la strategia comunitaria, opposta alla competizione; l’uguaglianza anche tra uomini e natura, all’insegna dell’animismo, prerogativa dell’infanzia; l’esperienza del viaggio, oltre i confini verso la conoscenza dell’altro; la civiltà e l’incontro di civiltà; la libertà, che consente a ogni uomo di appartenere all’aria e alla terra, che non è soltanto un luogo. Per i Grimm, infatti,  la terra del padre e dei patrimoni, della nazione e degli eserciti è Vaterland, ovvero la patria; mentre la terra della radici, lo spazio dell’infanzia e della memoria, è Heimat, un sostantivo privo di corrispondenza italiana, per il quale la studiosa ha coniato il sostantivo «Matria», neologismo riparatore, opposto al concetto di patria-nazione, «nato dalla critica al razzismo e al colonialismo, l’ecologia, il femminismo, l’apertura e il dialogo con culture altre».

Riferimenti bibliografici:

•Jacob e Wilhelm Grimm, Tutte le fiabe, a cura di Camilla Miglio, Donzelli 2015

• Silvia Ballestra, Una notte nella casa delle fiabe, Editori Laterza 2024

•Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, Newton Compton Editori 1985

•Angelo Marchese, L’officina del racconto, Mondadori 1983

• Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi Ragazzi 2010

• Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, a cura di Michele Rak, Garzanti 2013

•Italo Calvino, Fiabe Italiane, introduzione di Italo Calvino, Mondadori 1983

•Antonio Gramsci, Favole di libertà, Vallecchi 1980 e in liberliber.it

•Raul Mordenti, «Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci» in Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere. Vol. IV.II, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1996

•Laura Marchetti, La fiaba, la natura, la matria. Pensare la decrescita con i Grimm, il Melangolo 2014

•Laura Marchetti, Matria. Neologismo riparatore, Marotta e Cafiero 2021

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