The Blues Brothers – film di John Landis (1980)

“L’avrò visto 10, 20 volte, neanche so più quante”. Ho ascoltato (e pronunciato io stesso) questa frase un sacco di volte in riferimento alla pellicola di John Landis. Quando questo avviene il termine “mi piace” risulta riduttivo perché l’opera, con un suo percorso misterioso e non sempre calcolato, si trasforma in un vero e proprio fenomeno di culto. Altra testimonianza di ciò è la quantità di citazioni che molti di noi recitano a memoria ricordando esattamente lo svolgimento della sequenza. Per quanto mi riguarda, forse per la mia indole più incline alle trattorie per camionisti che ai ristoranti gourmet, i gesti raccapriccianti che Jake ed Elwood compiono per convincere il maitre Mr Fabulous a tornare nella band rappresentano un momento di comicità irresistibile. Ma andiamo con ordine, nel rispetto dei pochi che non hanno avuto l’occasione di vedere il film.

La trama
Jake “Joliet” Blues esce di prigione dopo aver scontato tre anni per rapina. Ad attenderlo suo fratello Elwood con una macchina della polizia (!) acquistata ad un mercato dell’usato. Entrambi sono cresciuti in un orfanatrofio che rischia di chiudere per un debito col fisco. Ispirato dalle parole del reverendo Cleophus James (uno scatenato James Brown) Jake cercherà di riunire la loro vecchia band di rhythm and blues: i “Blues Brothers”, allo scopo di trovare la somma necessaria per salvare la struttura. Saranno via via inseguiti dalla polizia, da una ex in cerca di vendetta, dai nazisti dell’Illinois ridicolizzati e buttati al fiume, dalle forze speciali dell’esercito, da una band di cowboys inferociti perché sostituiti in una serata improbabile nel bel mezzo del deserto. Il tutto produrrà ovviamente un’infinita serie di disavventure e momenti comici in un crescendo fracassone, volutamente esagerato e scandito da musiche di livello altissimo. Nel 2004, dopo un lungo sondaggio, la BBC l’ha proclamata la colonna sonora più bella di tutti i tempi.

Gli ingredienti infallibili
Unire in un unico progetto artisti del calibro di Ray Charles, Aretha Franklyn, James Brown, Chaka Khan, Cab Calloway, John Lee Hooker è stata una vera magia che ha dato subito una marcia in più. E aggiungerei la super band dei Blues Brothers: Matt “Guitar” Murphy, Steve Cropper, Donald “Duck” Dunn, Tom Malone, Lou Marini, Alan Rubin, Willie Hall, la potente voce di Belushi e l’armonica di Aykroyd. La musica la fa da padrona, tanto nell’autoradio della “Blues mobile” quanto sul giradischi decrepito del motel di Chicago, nella tavola calda di Aretha Franklyn e nel negozio di strumenti di Ray Charles, nelle esibizioni “live” e nei vari momenti nevralgici del film. A questo aggiungiamo l’energia trascinante di John Belushi, la sintonia con Elwood Blues/Dan Aykroyd, fratello dentro e fuori dal set. In un musical che è anche commedia comica e film d’azione, un ingrediente fondamentale è la sincerità di fondo che permea tutta la pellicola. Tanto amore per la musica ma anche momenti particolarmente intensi che secondo me donano al film qualche goccia di poesia: l’abbraccio dei fratelli all’uscita dal carcere; il dialogo in orfanatrofio con Curtis/Cab Calloway che si chiede che futuro potrà mai esserci per lui e per gli orfani della struttura indebitata; l’intro appassionata di Everybody needs somebody nella quale Elwood sottolinea l’importanza dell’amore nella nostra vita; l’esecuzione in carcere di un brano di Elvis all’insegna di un meraviglioso furore rock’n’roll (primo a scatenarla il grande chitarrista degli Eagles Joe Walsh che si presta ad un generoso ruolo marginale di comparsa). La trama, apparentemente folle, segue il filo di un soggetto davvero geniale, irriverente quanto basta e soprattutto ispiratissimo.

I Blues Brothers al di fuori del film
È grazie alle esibizioni al Saturday Night Live che i Blues Brothers prendono forma. Le doti vocali di Belushi erano già emerse nell’esilarante imitazione di Joe Cocker spopolando tra gli appassionati del programma. Il film suggellò il progetto, mai scisso comunque dalla musica. La band si era già esibita ovunque con grande successo. Già nel 1978 il primo album era giunto al n° 1 della classifica di “Billboard” vincendo ben due dischi di platino. Anche dopo la morte di Belushi i tour proseguirono con la partecipazione del fratello James (anche lui attore comico e musicista). L’impatto dei Blues Brothers sul mondo esterno è stato enorme. Sono diventati un’icona che è entrata prepotentemente nell’immaginario collettivo. Dai vestiti di carnevale alle statue e i monumenti dedicati, addirittura metafora per scrittori e giornalisti (ricordo un titolo di un’ importante rivista americana che utilizzava “The Blues Brothers” per prendere in giro un personaggio illustre). E ancora oggi, se pensiamo a coppie comiche come Lillo e Greg, viene in mente sicuramente quel tipo di ispirazione (pur in un percorso personale e originale).

Il sequel un po’ scialbo
“Blues Brothers – Il mito continua” (“The Blues Brothers 2000” di John Landis – 1998) partendo dal grave handicap dell’assenza di John Belushi, com’era prevedibile, non riuscì ad avvicinarsi neanche lontanamente all’energia del primo film. È comunque un omaggio sincero a quell’esperienza, con al seguito un altro manipolo di mostri sacri della musica: Eric Clapton, B. B. King, Stevie Winwood, Wilson Pickett, Isaac Hayes, Eddie Floyd, Jimmy Vaughan, Dr. John, Bo Diddley, Sam Moore, Charlie Musselwhite, Clarence Clemons, Billy Preston, solo per citarne alcuni, oltre a Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown che già avevano partecipato al precedente.  

La vita incendiaria di John Belushi
Fu una forza della natura in grado di travolgere tutto ciò che incontrava: lo sport (football americano), il teatro, la musica, il cinema, la vita stessa, che divorava avidamente giorno dopo giorno fino allo sfinimento, forse nel tentativo di contrastare i propri demoni (come fece trapelare il fratello James rivelando un istinto protettivo di John nei suoi confronti). Quantità enormi di cibo, alcol, droghe di ogni tipo, una fame di emozioni che purtroppo finì per distruggerlo a soli 33 anni. E di certo non lo aiutò la feroce macchina dello show-business, poco orientata al rispetto di un uomo a pezzi, fragile, in caduta libera verso il baratro. Il libro inchiesta di Bob Woodward (Premio Pulitzer 1973 per le inchieste sul caso Watergate) Chi tocca muore – La breve delirante vita di John Belushi è al tempo stesso bellissimo e terribile, un po’ come la vita di John. A noi restano, a testimonianza del suo grande talento, le esibizioni live, il meraviglioso Bluto di Animal House, il Jake “Joliet” dei Blues Brothers descritto in queste righe e, secondo me, l’Ernie Souchak di Chiamami aquila (film di Michael Apted molto tormentato perché Belushi era ormai alla deriva e faceva molta fatica a seguire i ritmi della produzione, dimostrando però una notevole attitudine anche per la commedia romantica).

Fratelli, dentro e fuori dal set
Dan Aykroyd fu devastato dalla morte di John. Erano il braccio e la mente di un meccanismo esplosivo. Era spesso Dan a scrivere i testi (sua la sceneggiatura del film, poi ridimensionata dal regista Landis perché lunghissima, e suoi gli sketch del Saturday Night Live) e lo faceva immaginando la straordinaria gamma di espressioni facciali e verbali di John. Era già pronto un altro ruolo per Belushi: il dottor Peter Venkman dei Ghostbusters, progetto slittato a causa del tragico evento (fu poi Bill Murray ad interpretare il personaggio). La fratellanza continuò in qualche modo, nonostante tutto. C’è un pezzo di John nelle esibizioni dei Blues Brothers successive alla sua morte; e c’è anche nelle “House of Blues” aperte da Dan Aykroyd in tutta America con il sostegno di James Belushi.

I momenti più esilaranti del film
Non possiamo non chiudere con un sorriso. Perché The Blues Brothers ce ne ha regalati tanti. A parte un paio di trovate di cinismo estremo che probabilmente oggi stridono un po’ (penso in particolare all’incontro nei canali fognari con la ex di Jake) la comicità dell’opera di Landis non è invecchiata per nulla. E ci si sganascia dalle risate esattamente come nel 1980. A partire dall’abito scuro “da beccamorto”, con gli occhiali da sole indossati giorno e notte; le abitudini alimentari dei protagonisti (quattro polli fritti e una coca per Jake, pane bianco tostato liscio per Elwood); i colpi di bacchetta della “pinguina” a punire le loro imprecazioni, l’illuminazione nella chiesa di “Triple Rock” che scatena i due fratelli rivelando l’idea della ricostituzione della band; la sontuosa presa in giro dell’ambiente cowboy più tradizionalista, quando i nostri eroi si spacciano per membri del sindacato mostrando quale tesserino di riconoscimento un pacchetto di sigarette; le già citate scene del ristorante di lusso e dei nazisti dell’Illinois scaraventati in fiume; la distruzione della Blues Mobile (e seguente commozione di Elwood) a conclusione dell’inseguimento; l’uso spropositato di forze e mezzi per catturare i due. Grandi risate insomma. E lo sappiamo, la risata può avere un potere terapeutico, consolatorio, politico persino. E allora torniamo a gustarci The Blues Brothers!

  • Jake: “Cos’è, la nebbia?”
  • Elwood: “No, è il motore. È partito un pistone”
  • Jake: “Poi torna?”

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