Sono l’ultimo di otto figli e, tra i numerosi fratelli e sorelle, ho da sempre un particolare legame con Lucio, il mio fratello gemello che, essendo gli ultimi nati, siamo stati il vanto dei nostri genitori e del resto della famiglia.
Crescendo le differenze tra me e il mio gemello (siamo eterozigoti) si sono accentuate, nonostante nostra madre si ostinasse a vestirci in maniera identica. E questo fino all’età di 10 anni.
Così Lucio incorniciava il suo bel faccino con una folta chioma riccioluta che la mamma, ogni mattina, acconciava in un meraviglioso boccolo che adornava il viso dalla carnagione chiara e lo sguardo vivace.
Per me invece bastavano due colpi di pettine per sistemare i capelli castani, lisci e sottili, in un praticissimo caschetto.
Non ho mai nascosto che il mio gemello sia stato (e sia) il più bello tra noi due. Io mi sono sempre accontentato di essere “ ‘nciniusu ” (bruttino ma simpatico), come mi definiva amorevolmente nostra madre. Definizione che mi è andata sempre bene.
Ma per un bambino come me a quell’età, vivere con un continuo “termine di confronto” non sempre era facile, soprattutto quando gli adulti riservavano gesti di affetto e manifestazioni di preferenza nei riguardi del mio riccioluto e belloccio gemello.
Uno di questi adulti era zio Giovanni P., un lontano parente che viveva in America e che quasi ogni anno ritornava in paese. Il classico “zio d’America” che riempiva i bambini e le bambine del quartiere di caramelle, gomme da masticare e giocattoli portati dal magico e lontano Eldorado.
Zio Giovanni aveva avuto dalla moglie una sola figlia e, ogni volta che si trovava in paese, non perdeva occasione per rimarcare ad Annuzza (il nome di nostra madre) la fortuna di avere avuto otto figli e di aver chiuso la figliolanza con due splendidi gemelli.
Per questo motivo il parente americano aveva legato un particolare affetto nei confronti di mio fratello Lucio. Nelle calde giornate d’estate chiedeva il permesso alla nipote Annuzza di portare con sé Lucio a passeggio fino al bar, per poi comprargli un gustosissimo cono gelato.
Questa abitudine, perché tale era diventata, si ripeteva quasi ogni giorno. E almeno una volta avrei sperato che fossi io a prendere il posto del mio gemello. Invece rimanevo a giocare con gli altri compagni mentre lo vedevo allontanarsi verso il bar preso per mano dallo zio americano.
Una delle tante volte, di ritorno dall’America, aveva portato a “Luciuzzu” (così lo chiamava) una bellissima barchetta in legno, tutta colorata con il verde, il rosso e il giallo.
Lucio mostrava con orgoglio a me e ai compagni di gioco il prezioso giocattolo ricevuto in dono, ma non permetteva a nessuno di poterci giocare. Più volte avevo tentato di convincerlo a recarsi nel vicino abbeveratoio per mettere in acqua la barchetta e così giocarci assieme. Ma nulla da fare!
Un tardo pomeriggio di fine agosto, dopo l’ennesimo tentativo, Lucio aveva acconsentito di andare a giocare con la “sua” barchetta all’abbeveratoio, con l’obbligo che lui l’avrebbe messa nella vasca e che lui avrebbe deciso quando smettere.
Era iniziato il tramonto: i pastori e i contadini avevano portato i loro animali ad abbeverarsi prima di riportarli negli ovili o nelle stalle.
L’abbeveratoio era finalmente libero. Ci eravamo avvicinati al bordo della vasca per il “varo” della piccola imbarcazione, che Lucio lentamente aveva posato sul pelo dell’acqua.
Mi ero dotato di un bastoncino per smuovere l’acqua, così da fare “prendere il largo” alla barchetta di Lucio che, visibilmente preoccupato, la vedeva allontanarsi dalla sua portata.
Si poneva adesso il problema del recupero del giocattolo, che aveva nel frattempo raggiunto il bordo opposto della vasca. Nessuno dei due riuscivamo a prenderlo! Con il bastoncino avevo tentato di tirarlo verso di noi, ma Lucio si era opposto decisamente perché, sapendo di come fossi maldestro, l’avrei fatto rovesciare, rovinando irrimediabilmente i suoi vividi colori.
Colpo di genio! Lucio si sarebbe allungato sul bordo dell’abbeveratoio, tenuto per le gambe da me, così da poter recuperare la barchetta! Non appena Lucio stava per toccarla con le punta delle dita, dandogli un’ultima spinta più decisa, lo avevo fatto cadere rovinosamente, testa in giù, dentro la vasca con le gambette che si agitavano fuori dall’acqua.
Davanti a quella scena mi ero messo a piangere e a urlare per attirare l’attenzione delle poche persone presenti nello spiazzo. Tra questi Bartolo, uno dei nostri fratelli che lavorava come garzone nel rifornimento di benzina di fronte casa.
Attirato dal mio pianto, nostro fratello si era precipitato verso l’abbeveratoio e aveva tirato fuori dall’acqua il gemellino, bagnato fradicio, col viso paonazzo e gli occhi stralunati per l’acqua ingoiata.
Messo in salvo Lucio, Bartolo mi aveva dato, seduta stante, una sonora lezione a suon di schiaffi e sculacciate. Così io, che avevo smesso nel frattempo di piangere nel vedere mio fratello sano e salvo, ricominciai a piangere per la punizione ricevuta.
Presi per mano, nostro fratello ci aveva accompagnati a casa per raccontare tutto l’accaduto a nostra madre, che non si era accorta di nulla, pur essendo la casa proprio di fronte al Largo Canali (così si intitolava lo spiazzo davanti all’abbeveratoio). La mamma era impegnata in cucina a preparare la cena: gallina in brodo con le patate.
Informata dettagliatamente da Bartolo, nostra madre era stata più indulgente con me, mentre le raccontavo tra le lacrime la mia versione dei fatti, e rimarcando che mai avrei voluto fare del male a Lucio.
Per tranquillizzarci, perché ancora visibilmente spaventati, ci aveva preparato un bagno caldo e ci aveva fatto cenare, seduti uno accanto all’altro, con una fumante pastina nel brodo di gallina.
Quel piatto, semplice ma altrettanto buono, sarebbe rimasto uno dei miei preferiti anche da grande. Ogni volta che sento il desiderio di “coccolarmi” un po’ e la nostalgia mi prende, mi preparo il brodo di pollo secondo la ricetta imparata da mia madre, e dove metto a cuocere della pastina all’uovo o dei tortellini.
Quella sera io e Lucio siamo andati a letto senza vedere “Carosello” e senza aspettare il rientro a casa di nostro padre, che era solito portarci dal bar due panzerotti alla crema.
L’indomani, appena svegli, li avevamo trovati sul comodino ancora col profumo fragrante dello zucchero a velo spolverato generosamente sopra. La mattina la colazione con i panzerotti era stata più ricca e dolce. Ma prima, come regola, abbiamo dovuto mangiare la consueta zuppa di latte con il pane e l’uovo fresco “a zabaglione”.
Finita la colazione, avevamo avuto il permesso di andare a giocare con gli altri compagni. Con la raccomandazione di non combinare altri guai. Ma questo, in cuor mio, sapevo bene di non poterlo assicurare!