A 136 anni dalla sua nascita, Chaplin risulta incredibilmente attuale. È questa la caratteristica dei grandi artisti. Prendiamo ad esempio le tragicomiche disavventure del vagabondo (conosciuto in Italia come Charlot) in Tempi moderni (1936), alle prese con la catena di montaggio di una fabbrica. Il tema del rapporto tra essere umano, macchine e tecnologia è, oggi più di ieri, all’ordine del giorno. E che dire della goffa gara di superiorità tra Mussolini/Napoloni e Hitler/Hynckel ne Il grande dittatore (1940)? Il loro super ego dalle conseguenze devastanti somiglia incredibilmente, ahinoi, a quello degli attori politici buffoneschi dei nostri tempi. E la crisi interiore della ballerina di Luci della ribalta (1952) travolta e curata dalla fame di vita di Calvero? Potremmo citare centinaia di dialoghi simili nelle nostre città (soprattutto in riferimento alla fragilità di Thereza). E posso continuare. Il dramma della povertà ne Il Monello (1921) e in Luci della città (1931); La brama di possesso in La febbre dell’oro (1925); Il tema dell’emigrazione nel cortometraggio Charlot emigrante (1917); le critiche aspre al capitalismo selvaggio in Monsieur Verdoux (1947) e così via. La comicità era certo travolgente ma ti lasciava dentro sempre qualcosa, rivestendosi di poesia e di agganci alla vita reale.

Charles Spencer Chaplin nacque a Londra nel 1889. La sua infanzia fu drammaticamente segnata dalla precarietà affettiva, economica e psicologica della famiglia. Trovò nel teatro, sin da piccolissimo, una grande valvola di sfogo, ottenendo straordinari successi nei varietà e nei circhi. Col fratellastro Sidney si sviluppò un sodalizio proficuo che durerà nel tempo, saldato dal talento e dal comune sofferto passato. Il grande successo arrivò con il cinema muto, dove la mimica straordinaria, le doti acrobatiche ed espressive di Charlie lo resero famoso in tutto il mondo. Furono gli Stati Uniti ad offrirgli le basi economiche per mettere a frutto tutte le sue doti. Il pubblico lo idolatrò come comico della pantomima ma in lui c’era molto di più. Col personaggio del vagabondo trovò il modo di dare spazio alla sua indole poetica. Una volta conquistato il ruolo di regista, oltre che di interprete, dei film, tra una risata e l’altra iniziò ad esprimere senza fronzoli i suoi ideali da convinto umanista.

Il genio espresso nel cinema muto

Era completamente un altro mondo il cinema che precedette l’avvento del sonoro. Esso si basava tutto sulla gestualità, la mimica, le trovate sceniche, la musica in sottofondo e le frasi descrittive tra una scena e un’altra che dovevano essere brevi e chiare, mettendo lo spettatore nelle condizioni di capire ciò che stava accadendo. Questo rendeva a volte necessario uno sforzo creativo enorme per rendere chiara la storia. Il film biografico Charlot (titolo originale Chaplin, di Richard Attemborough, anno 1992, protagonista un bravissimo Robert Downey Junior), racconta le difficoltà trovate nella realizzazione di Luci della città. Come far capire la scena nevralgica del film, nella quale la fioraia non vedente scambia il povero vagabondo per un ricco? La trovata risolutiva fu la chiusura della portiera di un’ auto lussuosa di passaggio. Per concludere l’opera ci vollero 3 anni di fatiche, ritardi, litigi, abbandoni della troupe, dissanguamenti economici. Alla fine il capolavoro fu pronto. “Volevo rappresentare un qualunque uomo che aspirasse alla dignità”. Il successo fu grandioso anche perché toccò il cuore di una popolazione sconvolta dalla sanguinosa crisi economica e sociale del 1929.

L’avvento del sonoro

“So che il sonoro sarà la fine per il vagabondo, è sicuro. Ma almeno se ne andrà dicendo qualcosa in cui credo”. Il film biografico Charlot cita questa frase per spiegare il grande travaglio di Chaplin nell’accettare, dopo tante resistenze, il fonofilm. Già con Luci della città aveva subìto pressioni in tal senso. Tutte le produzioni stavano andando in quella direzione. Egli resistette finché poté perché pensava che tutta la poesia del vagabondo si potesse esprimere unicamente tramite il muto. Con Luci della città ebbe ragione, il film fu un grandissimo successo. Ma in pochi anni le cose erano mutate con grande velocità e la nuova direzione del cinema era ineluttabile. Così nacque l’idea de Il grande dittatore, primo film parlato di Chaplin. Uscì negli Stati Uniti nel 1940, con Hitler al massimo del suo potere. La somiglianza del vagabondo col dittatore favorì l’idea dello scambio di persona tra il barbiere ebreo e l’usurpatore nazista. Il film è certo politico, nell’accezione più nobile del termine. Prima la derisione del dittatore, poi l’indimenticabile appello alla fraternità. Se consideriamo il periodo in cui fu girato, comprenderemo quanto coraggio doveva volerci e proveremo senz’altro un brivido speciale. Il film costò molto a Chaplin. Sia in termini economici (visto che per anni la pellicola non poté circolare in Europa) che “giudiziari”. Anni dopo, completamente decontestualizzato dal periodo in cui uscì (coincidente con l’ascesa di Hitler), divenne uno dei pretesti per accusare il cineasta di essere un comunista colpevole di attività antiamericane e sovversive (in realtà lui si definiva umanista, non comunista) e fu esposto al massacro censorio e mediatico del maccartismo, con conseguente condanna all’esilio dagli Stati Uniti.

“Luci della ribalta” (1952)

“C’è una cosa che è altrettanto inevitabile della morte. Ed è la vita. Viva! Viva! Viva! Pensi alla forza che è nell’universo, che fa muovere la terra e crescere gli alberi! E c’è la stessa forza dentro di lei, purché abbia il coraggio di usarla.”

Calvero, un importante artista sul viale del tramonto ha appena salvato Thereza dal suicidio, una ballerina in preda alla disperazione. Come destato all’improvviso dall’oblio di chi era famoso ed ora incontra solo indifferenza, messi da parte i suoi problemi personali, l’alcolismo, la povertà, la solitudine, cerca in tutti i modi di motivare la ragazza, spingendola a lottare per riprendersi la vita.

Chaplin temeva di non essere all’altezza del “nuovo” cinema. Quanto si sbagliava! Abbiamo già scritto de Il grande dittatore. Luci della ribalta è un altro indubbio capolavoro. Trainato da una splendida colonna sonora (vincitrice del premio Oscar, autore lo stesso Chaplin) Luci della ribalta è un film sulla vita. Vita che a volte sfugge, che si può riconquistare con l’aiuto di un affetto, che è un’opportunità da assaporare fino in fondo, anche quando le luci si abbassano e ci si sente inadeguati e fuori posto. Il successo si attenua, i grandi applausi sono solo un ricordo. È l’oblio dell’artista dimenticato. Qui viene raccontato in compagnia di un altro gigante di quella generazione, Buster Keaton. Il quale si rivolge al collega dicendo: “al prossimo che mi ripete: “come ai bei tempi” mi butto dalla finestra”. La loro esibizione, così densa di struggente malinconia, è una sequenza con riflessi palesemente autobiografici. Calvero ha un ultimo inaspettato trionfo prima di chiudere il sipario della vita.

Ogni volta che vedo un film di Chaplin penso a quanta fatica, quanto lavoro artigianale, quanto coraggio, quanto amore per l’arte contenga e poi penso a chi vorrebbe utilizzare l’intelligenza artificiale per le sceneggiature dei film, per i testi e le musiche delle canzoni, penso agli auto-tune che rendono intonate anche le campane a morto. E, pur desideroso di guardare avanti e non solo indietro, mi chiedo se non sia il caso, tutti, di fare una riflessione seria sul percorso che stiamo intraprendendo delegando alla tecnologia il ruolo di pensare, agire (vivere?) in nostra vece.

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