«Vi devo parlare…», cominciò così il discorso di Francesco, nella sala d’attesa di un ospedale ai suoi ragazzi. «La mamma… beh… come ve lo spiego? Non siamo qui perché la mamma doveva rimuovere un semplice polipetto… siamo qui perché le è stato trovato qualcosa al seno». Monica e Simone abbassarono la testa e tacquero. Guardavano a terra. Non volevano alzare lo sguardo, sarebbe stata dura per loro incontrare gli occhi del padre. Monica scelse di alzarsi e andare al bar dell’ospedale, aveva la necessità di piangere ma non voleva farlo davanti a tutti. Simone la seguì, ma si tenne a debita distanza. Nel tragitto entrambi non proferirono parola perché se avessero aperto bocca o si sarebbero guardati, sarebbe stata la fine.

Trascorsero sei ore dalla notizia più traumatica della loro vita, poi: «È in camera, potete vederla. Vi accompagno», disse un infermiere a Francesco. Tutti e tre scelsero di fare le scale, anziché prendere l’ascensore. Non si sa perché, ma salire le scale era un modo per ritardare la vista di Eleonora stesa in quel letto, quel letto che non era il suo. Si fecero ben quattro piani e poi giunsero alla porta. Francesco entrò senza esitare. Monica e Simone fecero fatica, il loro passo era lento, i piedi sembravano attaccati a terra, ogni passo avanti era come un pugno allo stomaco; il respiro diventava sempre più affannoso, le spalle si irrigidivano e le mani si chiudevano in un pugno. L’ansia stava prendendo il sopravvento sui fratelli.

Attraversarono il piccolo corridoietto bianco e poi si voltarono verso il primo letto. «Ciao amori miei», esordì Eleonora con il suo solito sorriso. Monica rimase impietrita, Simone, invece, avanzò verso il letto e si sporse verso la madre per darle un abbraccio, ma era impacciato, non sapeva dove toccare, quale parte del corpo della madre poter sfiorare, così si limitò solamente a darle un bacio sulla fronte e a sorriderle. Il suo volto cambiò non appena le girò le spalle, Simone stava per indossare una corazza per proteggersi dal trauma e per nascondere lo sconforto che stava incombendo senza timore su di lui.

«Moni, vieni… non stare lì, vienimi ad abbracciare». Madre e figlia si guardarono. Eleonora le porse una mano, Monica l’afferrò senza esitare. Entrambe tremavano. Si riguardarono e poi Monica si lasciò andare ad un pianto silenzioso. Le lasciò la mano e scappò in bagno. Si asciugò le lacrime, si lavò la faccia e riuscì.

In quella stanza bianca, asettica, con le finestre grandi da cui entrava la luce del pomeriggio, la famiglia era finalmente riunita. Nessuno, in quell’ora di tempo, avrebbe preso l’argomento o per lo meno Francesco ed Eleonora non lo avrebbero fatto in presenza dei ragazzi. Avevano bisogno di stare insieme a loro senza parlare di medici, visite e di quando tutto ciò fosse cominciato. Non avrebbero aperto di proposito il vaso di Pandora. Non era il momento.

Eleonora, nelle settimane che avevano preceduto il giorno dell’intervento, era immersa nel suo mondo, ma mai distratta, seguiva Simone che doveva prendersi la maturità e Monica per l’università. Aveva scoperto, “per caso” di avere un tumore, ma questo di certo non l’ha buttata giù. Indossava ogni mattina sempre la stessa maschera, quella col sorriso, facendo in modo che i suoi ragazzi non vedessero in lei il terrore, il dolore, l’incertezza. Monica e Simone non si erano accorti di nulla, quel sorriso aveva mascherato le perplessità, il buio in cui era caduta, le domande sulla vita, sul perché a lei, sul come sarebbe andata, e loro non avevano percepito nulla.

Ma adesso Eleonora poteva respirare, la maschera era caduta e il peso della verità, anche se con estrema tristezza, ora poggiava su quattro persone. Il percorso non era solamente a giocatore singolo, si era trasformata in una partita a più giocatori ma con una sola squadra, la famiglia contro un nemico infimo e perfido che avrebbe vissuto ancora per poco.

Uscirono dall’ospedale dopo cinque giorni. Eleonora indossava un pantalone scuro e una giacca larga per nascondere i tubi che le uscivano dal corpo. Provava vergogna per la propria condizione. Ma vergogna di cosa? Non lo sapeva neanche lei.

Dopo un’ora e mezza furono a casa. «Casa dolce casa», disse che un filo di voce Eleonora.

Monica e Simone salirono in fretta e in furia le tre rampe di scale, invece, Francesco ed Eleonora le fecero con calma. Arrivati agli ultimi gradini, però Eleonora barcollò, era stanca, era stremata, voleva solo sdraiarsi. Francesco se la caricò, facendo attenzione a non farle male, e la portò in camera.

I ragazzi passarono tutta la giornata seduti nella camera da letto della madre. Si aprirono, parlarono a cuore aperto e anche Eleonora fece altrettanto. Fu terapeutico. Eleonora stava condividendo finalmente.

Dopo un mese cominciò la chemio. La prima seduta andò bene, non ebbe grossi problemi, niente nausea, niente capogiri, era serena e di conseguenza lo erano anche i ragazzi. Ma la tranquillità durò poco.

Un giorno Eleonora cucinò per pranzo il suo piatto preferito, spaghetti con la salsa di pomodoro fresco. Apparecchiò con una bella bellissima tovaglia bianca e non appena il pranzo fu pronto, chiamò Monica. Si sedettero a tavola e cominciarono a gustare il pasto, ma qualcosa nella tovaglia attirò l’attenzione di Monica. Capelli, dei capelli neri erano sulla tavola. Guardò Eleonora, senza farsene accorgere, e capì che era giunto il momento. Si affrettò a toglierli subito dalla tavola e far finta di nulla e continuò a pranzare, in silenzio con lo sguardo fisso sulla televisione. Due giorni dopo Eleonora andò da Ettore, il parrucchiere, verso le otto di sera, l’orario ideale per non incontrare nessuno, e rasò a zero i capelli. Ad Ettore gli venne ordinato di coprire tutti gli specchi, Eleonora non voleva vedersi, non si accettava in quello stato, si sarebbe guardata allo specchio solo quando avrebbe indossato la parrucca.

Tornò a casa, i ragazzi l’aspettavano. Appena li vide, iniziò a piangere e loro con lei.

Senza capelli, con una cicatrice sul lato sinistro del corpo, le sopracciglia con i buchi.

Chi era adesso? Cosa stava diventando? Si sentiva estranea a quel corpo. «Sono un mostro, sono un mostro!» ripeteva. Non era lei. Voleva urlare, spaccare tutto, piangere ma a cosa sarebbe servito?

Il sorriso si era spento, la maschera era caduta. Il periodo buio era appena iniziato.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *