Ovunque le maschere parlano ed esprimono cose che senza il loro uso sarebbe difficile o addirittura impossibile rivelare.  Ad esempio dicono molto sulla cultura di chi le indossa, sul pensiero religioso, filosofico ed estetico e su molto altro. In Africa sono molto usate mentre in occidente sono relegate al carnevale, privato ormai del suo significato. Le maschere africane rivelano un carattere peculiare dell’arte africana: essa non è mai contemplativa piuttosto diremo che essa è funzionale. Qualsiasi espressione artistica in Africa è completa solo se assolve una funzione, se la creazione perde l’idoneità alla funzione per cui è stata pensata non serve più e perde ogni valore. Non serve guardare un immagine, al contrario é l’immagine deve servire. La poesia deve essere recitata, la maschera usata, indossata e danzata. In Africa le maschere sono di due tipi, muzima, sono quelle che rappresentano l’uomo vivente e servono a scopi profani cioè per feste e divertimenti; poi ci sono le maschere muzimu che servono a scopi di culto. Le prime rappresentano volti umani, le seconde invece rappresentano l’uomo morto. Queste ultime non hanno volto perché  i morti non hanno più il corpo e la loro realizzazione deve dare risalto a quei tratti che distinguono i vivi dai morti.  Le maschere dei morti sono quelle degli avi, lo scultore é libero, deve solo dare il senso di un volto “sopra reale”, un non volto. L’artista non ritrae (nel senso europeo del termine) in maniera fedele, ma ricrea cercando  i tratti identificativi della figura che intende realizzare, la pettinatura, la corona, le vesti (cosa peraltro non estranea alla pittura occidentale, con la differenza fondamentale che in questa il volto ritratto é sempre il punto di partenza). Diciamo che se il volto é un elemento determinatore di primo grado l’artista deve concentrarsi su quelli di secondo grado. Nella filosofia africana gli uomini vivono, i morti esistono, quindi lo scultore dovrà concentrarsi sull’esistenza dell’avo, sulla sua importanza, non sul suo volto, ma dovrà farlo rendendo comunque riconoscibili i tratti distintivi della personalità e del rango. Abbiamo detto che le maschere dei morti servono per pregare: ma come pregano gli africani? Ecco, qui occorre palesare quello che le maschere dicono e, per farlo, bisogna approfondire (solo quello che basta). La religione alla quale faccio riferimento è quella dell’Africa nera, una religione tradizionale, tramandata oralmente (naturalmente in Africa esistono tutte le altre religioni rivelate, nessuna esclusa). Diciamo intanto che in questa parte dell’Africa (occidentale e subsahariana) si prega con la parola e con la danza. Anche noi usiamo la parola per pregare e nel vangelo Giovanni dice: “In principio era la parola, e la parola era presso Dio e la parola era Dio”. Quindi? É la stessa cosa? No, ciò che rimane uguale è l’importanza del verbo, ma la differenza sostanziale sta nel fatto che nei Vangeli la parola resta presso Dio e l’uomo può solo testimoniarla invece in Africa il “nommo”, la parola, si fa carne presso il “muntu” (uomo, ma nella lingua bantu il concetto di uomo abbraccia i vivi, i morti, gli avi e gli antenati divinificati). Ogni muntu ha il potere della parola, ma questo suo potere deve misurarsi con quello di altri uomini e di Dio (Amma); c’è insomma una gerarchia della potenza ma essa è anche prerogativa dell’uomo e non solo di Dio. Per questo io dico che la religiosità africana è in qualche modo immanente. Avendo potenza sulla parola l’uomo può dirigere la forza vitale. Il neonato diventa muntu quando il padre gli da un nome e pronuncia questo  nome. L’uso delle medicine, la diffusione dei talismani, il persistere delle superstizioni, derivano da questo immenso potere della parola e senza di essa, sono privi di ogni virtù. Ricordo che anche in occidente, in Italia, in Sicilia, nella cultura contadina e popolare la parola era  potente (formule per il raccolto, donne che toglievano il sole etc), quindi etichettare queste pratiche come folkloristiche e guardarle con disprezzo e diffidenza  é sintomo di superficialità. Ma veniamo al secondo aspetto della preghiera africana: la danza. Senza scendere troppo nei particolari diciamo che nel tempo, e soprattutto nel medioevo, il cristianesimo non vedeva di buon occhio (fino a vietarle)le danze in generale ma soprattutto quelle fatte nei luoghi di culto, e ancora di più le danze estatiche. Raggiungere l’estasi attraverso il corpo é peccato: quando  preghiamo noi occidentali, siamo immobili e ci allontaniamo dal corpo per “salire” verso Dio. Gli africani invece Dio, o meglio gli dei, i Loa e gli Orisha (che sono antenati divinificati) li fanno scendere e si fanno cavalcare da essi nella danza. Avete visto le preghiera dei neri in America? Avete visto come ballano e cantano felici? Ecco questo è ancora un chiaro retaggio delle loro origini che fieramente esprimono. E dice ancora qualcosa sull’immanenza della preghiera africana che non sale verso il cielo ma chiama gli dei verso la terra. La religione alla quale facciamo riferimento è quella vudu che dall’Africa è poi arrivata a Cuba, a New Orleans, in Brasile e ovunque siano stati deportati gli schiavi. Essa è tale per vari motivi. I suoi adepti credono nell’esistenza d’entità spirituali viventi nell’universo ma in stretto contatto con gli uomini. Esse costituiscono un Olimpo di dei, “il culto é organizzato e comprende una gerarchia sacerdotale, fedeli, templi, altari e cerimonie”. Queste entità sono gli dei , i Loa, che sono delle forze. Tramite la danza, i costumi e le maschere l’uomo, nello stato di possessione si apre a queste forze potenzia il proprio essere. Tramite la maschera egli abbandona la propria identità e viene trasformato nello  spirito che la maschera rappresenta. La maschera porta naturalmente i tratti e i segni distintivi della divinità da cui si sarà posseduti. Il danzatore diventerà un tramite con l’occulto e attraverso lui anche la comunità potrà mettersi in contatto con gli antenati e le altre divinità. Per questo motivo, le danze mascherate diventano  anche propiziatorie per riti anche non strettamente religiosi.

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