Ma quant’è figa, l’Italia, nelle sue tradizioni? Persino negli inganni quali possono essere le maschere, l’Italia che fa? Se ne esce con la Commedia dell’Arte, ricca di personaggi sfiziosissimi, figli legittimi di quei burloni che furoni i commediografi prima greci e poi latini. Noi, quindi, siamo i depositari di culture millenarie che si evolvono e crescono in forme d’arte antiche ma sempre nuove. Per meritarci, però, questa eredità, un minimo di sforzo grato possiamo pur farlo. Quindi, ripassino veloce sulle maschere regionali italiane, confluite a buon diritto nel teatro dei burattini e, da lì, nei travestimenti carnascialeschi fino agli anni ‘80 del secolo scorso. Chissà che non ritornino di moda.

Cominciamo il nostro veloce viaggio fra alcune maschere della tradizione italiana, partendo dalla Sicilia ai tempi della Commedia dell’Arte. Qui troviamo Peppe Nappa che ha rischiato di finire nel dimenticatoio sia nazionale che regionale molto prima dei suoi colleghi in giro per l’Italia. Per fortuna, il Carnevale di Sciacca (Ag) lo ha voluto come maschera ufficiale della manifestazione, ridandogli così un po’ di rilievo e vigore.

Peppe Nappa è insaziabile e goloso, infatti si aggira spesso per le cucine con la speranza di arraffare qualcosa da mangiare. Sensibile agli odori e ai sapori, annusa sempre l’aria per scovare leccornie nascoste. È un super pigrone, ma sa essere finissimo giocoliere e saltimbanco. Indossa casacca e calzoni di color azzurro, molto ampi e comodi. In testa, un cappello di feltro, di solito bianco. È povero, poverissimo, ha i calzoni rattoppati come Arlecchino. È così povero che pure il suo nome lo dice: nappa, infatti, significa toppa, rattoppo.

Dato che lo abbiamo nominato, tocca a lui, adesso: Arlecchino. Il nostro nasce a Bergamo, ma ha omologhi in tutta Europa. Debutta intorno al ‘500, ed è forse una delle maschere più note alle masse, quasi immune all’oblio. Di umili origini, deve il suo costume coloratissimo all’ingegno di sua madre: pur di vestirlo, la donna cuce insieme un intero vestito di toppe; i ritagli di stoffa erano di colori diversi, quindi ne viene fuori un abito spettacolare. In alcune storie, è il suo padrone a donargli degli scampoli affinché ne faccia un vestito. Arlecchino è buffo, furbo e ignorantello, ma anche buono e generoso. Ha sempre fame, come Peppe Nappa, quindi cerca di arraffare cibo ovunque possa. Descritto goffo e maldestro oppure dinoccolato ma agile, tutti concordano, però, sulla sua strepitosa e contagiosa allegria. Lo troviamo spesso in coppia con Brighella, a combinarne di ogni, o con l’amoruccio della sua vita, la bella Colombina.

Ed eccola, Colombina, l’eterna innamorata di Arlecchino, a volte fidanzata, a volte sposa. Si tratta comunque di un amore a distanza, perché Colombina è di Venezia, tranne quando Arlecchino non la raggiunge, combinando guai pure lì. Servetta scaltra, bella e intelligente, è una figura molto cara alla Commedia dell’Arte e a Goldoni. Con Arlecchino ha in comune l’incontenibile allegria e la voglia di vivere. È la migliore confidente della sua padrona, anche perché è una gran maestra negli intrighi e nei pettegolezzi. A volte ruffiana con gli uomini, si mantiene però fedele ad Arlecchino. Lui lo sa, ma soffre comunque di tenera gelosia per la sua innamorata. È fine e garbata, la nostra Colombina, tanto da risultare vezzosa ed elegante nonostante il grembiule da serva.

A dividersi le attenzioni di Arlecchino con Colombina c’è il caro Brighella, una scoppiettante maschera bergamasca. Anch’egli è un servo, sempre amato e benvoluto dai padroni. Tutti sono fermamente convinti della bontà di Brighella, lasciando che si occupi di qualsiasi situazione e intrigo da sciogliere. Brighella è pronto, scattante e servizievole, ma non tutti sanno però che non sempre è in buonafede; infatti briga (da qui, il nome) per avere un proprio vantaggio in ogni cosa. Brighella ha modi eleganti e raffinati, un parlare educato e misurato, insomma, un perfetto paraculo. E poi canta, suona e balla come pochi. Spesso e raffigurato con una chitarra fra le mani, nel suo affascinante vestito bianco ricco di intarsi verdi.

Lasciamo il mondo servile e ci spostiamo in quello signorile con Rosaura, padroncina veneziana amica di Colombina, infatti le si trova spesso insieme. Figlia di Pantalone, passa il suo tempo a parlare dei suoi affari di cuore con Colombina, prontissima a darle mille consigli. È una damina sempre innamorata del cavaliere di turno, quindi è tutta tenerezza e sospiri. Rosaura, a differenza della maggior parte delle maschere italiane, è sempre a viso scoperto, incorniciato da meravigliosi capelli biondi. Veste sempre elegantissima, adora i toni del blue, gli accessori e i gioielli. È una ragazza molto garbata e compita nei modi, nonché determinata e sicura si sé. E sicuramente più gradevole del gran tirchio di suo padre.

Pantalone, padre di Rosaura e tradizionale padrone di Arlecchino e Colombina, spicca su Venezia come mercante tirchio, irascibile ed molto molesto con le donne che malauguratamente lo incontrano. Serve o dame, poco importa: Pantalone è lascivo, fastidioso, urtantissimo con tutte.

Solo Goldoni provò a riscattarlo da questo ruolo ingrato: gli tolse la maschera e lo rese più accorto e saggio. Quindi, Pantalone diventa un mercante un po’brontolone, ma in fondo bonario, sotto le attente modifiche goldoniane. Ha il naso adunco, una barbetta a pizzo, e veste di solito con casacca e calzoni rossi, e cappuccio e babbucce a punta rialzata.

Prima di ritornare fra i popolani, ci spostiamo a Bologna la dotta, per incontrare il dottor Balanzone, che ha moltissime qualità e altrettanti vizi: parla svariate lingue fra cui il latino, cura mali incurabili, sa – o o è convinto di sapere – tutto e di più. È un gran chiacchierone, un po’ sboccato e volgare. È una buona, anzi ottima, forchetta: il pancione non lascia dubbi sulla sua grande passione per tortelli e tortellini.Quando non trascende, è il classico personaggio serio e molto erudito, ama far sfoggio di lunghi e complicati discorsi infarciti di paroloni incomprensibili al popolo. Vanta spesso titoli e competenze altisonanti, tant’è che tutti finiscono sempre per pendere dalle sue labbra, nonostante in fondo lo trovino abbastanza noioso. Usa vestire come i professori di Bologna: toga nera dal colletto e polsini bianchi, giubba, mantello e un cappellone.

Torniamo fra il popolo e incontriamo Gianduia, maschera piemontese per antonomasia. Nasce ad Asti, ma diventa presto il re del carnevale torinese. Il suo nome deriva da Gioann dla doja che vuol dire “Giovanni del boccale”. È buono e generoso, dai modi un po’ rozzi. Gianduia è un contadino, ma non disdegna le raffinatezze della città, soprattutto in fatto di cibo e vino. Infatti, la sua aspirazione è di diventare un signore, per poter godere a pieno titolo di quelle che lui ritiene sciccherie. Quindi si esercita, Gianduia, si esercita finché non ci riesce: elegante codino, abiti di buona fattura, impara a tramutare i suoi modi, da rozzi a eleganti e misurati. Sempre disposto ad aiutare gli altri, Gianduia è il paciere della Commedia dell’Arte. Sua moglie Giacometta lo adora. E pure noi: lo so che state pensando al cioccolato torinese che porta il suo stesso nome.

Scendiamo al centro/sud, per incontrare Rugantino, maschera romana. Le sue antiche origini arrivano fino al soldato fanfarone di Plauto, un militare spaccone e borioso. Ha il gusto della polemica e un fare decisamente truffaldino. È arrogante e ce lo dice già il suo nome, ché ruganza in romanesco significa appunto arroganza. È un vero bullo, però pare abbia il cuore tenero. Lo troviamo con abbigliamento da guappo popolano con tanto di spadini alla cinta e fazzoletto al collo, ma il suo costume più tipico è quello del soldato settecentesco: cappello a due punte, panciotto e calzoni corti (tutto in rosso) e calze lunghe a righe bianche e rosse.

E non poteva certo mancare lui, il caro, buffo, un po’ sgraziato Pulcinella. Napoletano doc, Pulcinella nasce già ai tempi dell’antica Roma, ovviamente poi ripreso e incoronato dalla Commedia dell’Arte.

Per nulla agile, lo troviamo a coprire i ruoli più disparati, dal servo al padrone, a volte popolano a volte borghese. Incarna vizi e virtù del napoletano medio, nonostante sia a buon diritto conosciuto in tutta Europa. Ha la gobba, il naso adunco e l’immancabile mascherina nera sul volto. La sua proverbiale lentezza forse serve per mascherare la goffaggine; parla sempre molto poco, ma quando, però, getta una sentenza, questa giunge come una vera staffilata. Il suo passatempo preferito? Bastonare gli avversari con la clava che porta sempre con sé.

Concludo questo piccolo viaggio con una maschera sicuramente sconosciuta, nonché di recentissima creazione: Farinella di Putignano. Prende il nome da una finissima farina di ceci e orzo tostati, di antichissima fattura e, un tempo, cibo per i poveri. Essa si accompagna ai sughi (a mo’ di scarpetta, ripulisce il piatto) o all’olio oppure, in tempi di magra, persino all’acqua, alla quale si aggiungono dei fichi. Insomma, io scrivo con l’acquolina perché so di cosa parlo, ma mi rendo conto che non è facile descrivere qualcosa che forse nemmeno tutta la Puglia conosce. A Putignano, provincia di Bari, se ne fa un largo uso. Del primo Farinella, l’originario, si sa ben poco: era povero, ubriacone, con la facciona e il naso rossi per il vino. A quando risalga, non si sa. Si sa però quando subì un restauro perché potesse rappresentare al meglio il carattere del suo paese: intorno agli anni ‘50, a Farinella rimangono sì la faccia e il naso rosso, ma indossa un abito multicolor come quello di Arlecchino, un cappello a tre punte coi campanelli come un jolly e un gonnellino rosso e blu, i colori di Putignano. Da avvinazzato, diventa fornaio capace di gesti eroici; sornione e ironico, amante del buon cibo e del buon vino, sempre allegro è in un perenne carnevale. Non a caso, è simbolo del carnevale di Putignano, che suole iniziare ufficialmente il 26 dicembre dell’anno prima, ma i cui preparativi partono di buona lena persino a luglio.

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