(un viaggio in Sardegna per scoprire che non tutti i Carnevale sono uguali)

Avevo iniziato a fare collezione di maschere. Maschere dal mondo.

E così, avevo iniziato a riempire le pareti di alcuni angoli di casa con maschere dalle più disparate provenienze. Da talune terre africane, fino alle Filippine, Bali, Messico, Thailandia, Caraibi, India. Di paglia o di batik, di ebano o di bronzo. Ne avevo accumulate un cospicuo numero di esemplari, tutti in bella mostra e degni di osservazione.

Pensavo – io che scrivo dalla terra di Pirandello, e nato in quella della commedia dell’arte – che gran parte delle maschere della mia sparuta estemporanea collezione provenissero da civiltà, da continenti, nei quali assolvono a una funzione di reale ‘copertura’. Di mascheratura.

Ché di fatto, nel nostro evoluto occidente – in pratica Europa e Stati Uniti, e forse Australia – abbiamo avuto l’incredibile capacità di creare maschere ‘social’. Nella vita di tutti i giorni – pirandellianamente, ma anche goldonianamente – siamo però riusciti nell’impresa di rendere pressoché inscindibili le nostre personalità reali da quell’apparenza che vogliamo a tutti i costi mostrare, diffondere.

(Mi viene sempre da dire, con una punta di corrosivo cinismo, che le maschere di Halloween o di Carnevale, in fondo, siano l’unico modo che ci è rimasto per sprigionare il nostro reale modo di essere).

Chiusa questa parentesi, chiudo anche la mia esperienza di collezionista di maschere.

Le ultime sono state una di Pulcinella in cartapesta, una di cuoio in forma di farfalla proveniente da Milano, e una dal celeberrimo Carnevale di Venezia, bianca e decorata a mano.

Stop.

Per buttare giù un articolo degno di nota, ho chiesto en passant alla mia amata Prof su un eventuale argomento del tipo: le maschere nella letteratura. Da maestra dell’ironia qual è, mi ha risposto di essere impreparata su questo tema (o tempora o mores! …), e che le uniche maschere che le venissero in mente in quel preciso istante fossero i Mamuthones.

E siccome io, con l’ironia, riesco a mascherarci persino la mia presunta serietà, ho iniziato a leggere qualcosa sull’argomento.

Nel luglio 2023, insieme a Rita e al nostro ‘piccolo’ Simone, abbiamo deciso di volare fino in Sardegna. C’erano tanti piccoli desideri, dentro quel viaggio: primo fra tutti, quello di andare a riabbracciare proprio la nostra amata Prof, che da qualche anno vive a Cagliari.

C’era la curiosità di esplorare il lato occidentale dell’isola, così catalano e pulito; c’era la voglia di conoscere il Supramonte, impervio e inestricabile, di deandreiana memoria; c’era il desiderio di Simone, di mettersi tutti insieme in macchina e di vagare liberamente (o quasi) in mezzo a una natura possente e intatta, e anche di perdersi nel nulla.

Tra le mete caparbiamente raggiunte, c’era anche Mamoiada.

Mamoiada è il paese delle maschere sarde più conosciute: proprio i Mamuthones, e anche gli Issohadores. È – insieme a Orgosolo – uno dei paesi più tristemente famosi per la stagione dei rapimenti in quel lembo montuoso e aspro del centro dell’isola. Anche i Tazenda le hanno dedicato una canzone. Si tratta di un minuscolo centro, poche case e pochi abitanti muti, una roccaforte di tradizioni, un sacrario di usanze, qua e là anche disegnate sui muri. Non esiste una piazza, non un ‘viale’ o un ‘corso’ che possano rivendicare una tale toponomastica. La gente osserva i forestieri da dietro una finestra, oppure percorrendo acciottolati senza tempo in una quotidianità ancestrale. Rispondono quasi timidamente alle richieste di informazioni, ci vogliono pochi attimi a realizzare che si tratta di cortese discrezione, di essenziale presenza.

Abbiamo raggiunto un negozio, che espone maschere d’ogni dimensione, e artigianato – anche tessile – tutto rigorosamente lavorato a mano. La signora, gentilissima e appassionata, ci ha accompagnati in un viaggio nella storia dei Mamuthones e del ‘Carrasecare’, il carnevale barbaricino. Ne ha parlato (e scritto) persino Dario Fo. Il Carrasecare non ha nulla a che vedere con tutti i Carnevale in giro per la nostra penisola. Come il Mamuthone non è riconducibile ad alcuna maschera da noi conosciuta.

A proposito di Dario Fo: il suo saggio pone in raffronto l’antica tradizione cretese o tessalica del dio Dioniso, sbranato dai Titani, con la sfilata sacrificale dei Mamuthones. E il Mamuthone, nella tradizione sarda, rimane la vittima prescelta nella quale il dio della pioggia si incarna. Anche il termine Carrasecare (in lingua sarda: carne da lacerare) – oltre a riecheggiare un altro brano dei Tazenda di Andrea Parodi, che il cielo lo accudisca – ricorda il sacrificio umano, così come la danza zoppicante, sincopata, ancor oggi simboleggia lo stato di ebbrezza rituale, tipica di chi era posseduto da quella divinità.

A confermare ulteriormente la tradizione dionisiaca, la maschera nera, muta, in legno di pero (il pero selvatico era l’albero sacro di Dioniso), ancora indossata a Mamoiada, in quanto la maschera di quel colore è (era) considerata un mezzo di possessione, di collegamento tra l’uomo e il dio.

A voler aggiungere ulteriori particolari, persino le pelli scure (un tempo, tradizionalmente, nere e indossate a rovescio, in segno di lutto e di sacrificio rivolto agli dèi inferi) erano un simbolo che si perde nella notte dei tempi, una richiesta di pioggia per la terra. E il numero di 12 (sono infatti dodici i Mamuthones che sfilano, sormontati dai caratteristici campanacci) rappresenta i mesi, le lunazioni e, quindi, il numero delle vittime da sacrificare, intruppate in forma di piccolo manipolo militare, ai cui quattro lati si muovono gli Issohadores.

Gli Issohadores sono sacerdoti nuragici, custodi dell’ordine e della pace durante la festa, figure benevole e umane, dotate di una fune (la ‘soha’) necessaria a ‘catturare’ le giovani donne lungo il passaggio, in segno di buon auspicio e di fertilità; oppure a trascinare amici, come augurio di salute e di buon lavoro, durante quella lugubre sfilata danzante.

Insomma, adesso che ho la calamita di un Mamuthone appiccicata al frigo, e ho deciso – dietro una boutade della mia Prof – di ripercorrere le stradelle tortuose di quei giorni in Sardegna, ripenso a quei momenti a Mamoiada: alle storie ascoltate, alla tradizione di quella processione danzata, alla solennità di una cerimonia a suo modo tragica, primordiale, che nulla ha a che vedere con l’euforia commerciale dei vari carnevali e di tutte quante le mascherate sparse per l’Italia.

Se ciò che lega le manifestazioni carnascialesche tra loro può essere lo stato di ebbrezza dionisiaca, da Sciacca fino a Viareggio; la maschera del Mamuthone ci svela, invece, la sua lacerante tradizione, con tutti i sacrifici che l’hanno auguralmente, nei millenni, insanguinata.

E Mamoiada ne perpetua ancora il ricordo.

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