
Raramente un film che riscontra grande successo di pubblico e di critica riesce a mantenere a lungo il riserbo sul tema portante e, soprattutto, sull’epilogo della storia. Proprio su questo aspetto, sulla segretezza riguardo l’argomento principale, a cui per altro si riferisce il titolo stesso dell’opera, gioca il film “C’è ancora domani”, la celebre e riuscita prima pellicola di Paola Cortellesi.
Nella storia l’attrice e regista romana è essenzialmente moglie e madre, in una Capitale in bianco e nero sul finire degli anni Quaranta, ancora devastata dalla guerra e dalla povertà economica e sociale. Un’arretratezza che si misura con i pettegolezzi di quartiere, con il mercato nero, con le ripetute violenze del marito sulla moglie e con la prospettiva di un futuro che promette libertà e benessere ma che potrebbe non cambiare mai. Il capofamiglia è interpretato da Valerio Mastandrea ignorante e ottuso padrone di casa che esercita il suo potere su moglie e figli, legittimato al comando dispotico dal poco che guadagna lavorando. La condizione femminile è relegata ad un ruolo di sottomissione fisica, economica e culturale che lascia pervadere un senso di ineluttabilità e di atavica rassegnazione. In linea con una condizione che difficilmente può cambiare, la speranza dell’intera famiglia è riposta nel matrimonio della primogenita con il figlio di un borghese arricchito e volgare che umilia e disprezza i futuri consuoceri. Le nozze, si comprende, diventeranno per la ragazza un lasciapassare di sottomissione, che passa di mano da padre al futuro marito. Unico spiraglio di luce in questo grigio è il rapporto tra madre e figlia che si evolve e si consolida, fino a far decidere alla madre di far “saltare in aria” le nozze con un espediente esplosivo. Altro elemento di grande dolcezza è l’amicizia sincera e disinteressata con il personaggio interpretato da Emanuela Fanelli. A tratti è presente anche il rimpianto per un amore non sbocciato ma che offre alla nostra protagonista la possibilità di cambiare vita, lasciare Roma e cercare insieme un futuro migliore altrove. Questo è il momento in cui il “Domani” del titolo potrebbe sembrare una fuga romantica, un salto nel buio per ritrovare se stessa, un nuovo inizio lontano dalle catene della famiglia. E invece no.
La forza della narrazione della Cortellesi risiede proprio in questo cambio di prospettiva. Il domani può essere migliore se si contribuisce a cambiarlo per tutti, ciascuno come può. La lettera che le arriva a casa e che la protagonista nasconde e custodisce gelosamente non è una lettera d’amore, non sono le promesse di libertà di un uomo, non è, insomma, un lasciapassare per fuggire codardamente dalla realtà. La missiva è un riconoscimento di esistenza, è la possibilità, nuova e tardiva, di partecipare alla storia collettiva, è un modo per essere artefici della propria emancipazione. Delia, la protagonista, guarda alla possibilità di esprimere il proprio voto politico, per la prima volta in Italia, come un appuntamento al quale non si può mancare, per il quale altre donne come lei si mobilitano e credono.
Il diritto del voto alle donne è una grande conquista. Un decreto del 1946 ha permesso alle donne con almeno 25 anni di età di poter eleggere e essere elette alle prime elezioni amministrative postbelliche. Tuttavia le prime vere elezioni aperte a tutte le donne sono state quelle del 2 giugno per eleggere l’Assemblea Costituente e per il referendum tra Monarchia e Repubblica.
“C’è ancora domani” ha senz’altro reso artistico e romanzato un passaggio importante della Storia del nostro Paese ma citando le parole della giornalista Anna Garofalo non sembra nemmeno discostarsi troppo da quello che successe ormai quasi Ottanta anni fa: «Le schede che ci arrivano a casa e ci invitano a compiere il nostro dovere, hanno un’autorità silenziosa e perentoria. Le rigiriamo tra le mani e ci sembrano più preziose della tessera del pane. Stringiamo le schede come biglietti d’amore».