
L’arte contemporanea, con la sua varietà di forme, la sua spinta verso l’innovazione e la sua capacità di sollevare interrogativi, stimola in chi osserva un ampio spettro di reazioni. Esse vanno dalla semplice ammirazione estetica al rifiuto totale, con risposte influenzate dal contesto culturale, dalla conoscenza dell’arte, dalle aspettative individuali e, soprattutto, dal momento esistenziale che l’osservatore sta attraversando.
Quando si ha a che fare con opere tradizionali come un dipinto, una scultura o una fotografia, la bellezza è spesso immediatamente percepibile: colori, forme e composizioni si rivelano a livello visivo e concettuale. Tuttavia, quando l’arte si fa più sperimentale, astratta, o quando si discosta da un oggetto fisico da contemplare, può nascere un senso di disorientamento. Ciò accade soprattutto con la performance, un mezzo espressivo che ha radici nei primi decenni del XX secolo e che, con il dadaismo e il surrealismo, ha iniziato a sfidare le convenzioni tradizionali. L’arte performativa emerge definitivamente come movimento negli anni ’60, con artisti che utilizzano il corpo come medium, creando esperienze temporanee e interattive che richiedono al pubblico una partecipazione attiva e un coinvolgimento più profondo per essere comprese appieno.
Le performance di artisti come Marina Abramović, Tino Sehgal e Bill Viola sono emblematiche di questa evoluzione. In particolare, Abramović con “The Artist Is Present” (2010), al MoMA di New York, ha invitato gli spettatori a non limitarsi a osservare, ma a entrare in una relazione fisica ed emotiva con l’artista stessa. Seduta ad un tavolo, aspettando che i visitatori si siedano di fronte a lei e la guardino negli occhi, ha creato una connessione umana intensa, dove il corpo e la percezione dell’altro diventano il fulcro dell’opera. In questo contesto, la valutazione dell’opera non si misura più in termini estetici, ma in base alla profondità dell’esperienza che essa offre.
Tino Sehgal, con il suo approccio effimero e immateriale, ha ulteriormente sfidato i confini dell’arte. Le sue performance non lasciano tracce fisiche permanenti e si realizzano solo nel momento in cui lo spettatore interagisce direttamente con i performer in situazioni insolite e surreali interpretate da ballerini, attori e persino dalle guardie di un museo. Un esempio celebre è “This is you”(2006), in cui una cantante esegue una canzone personalizzata per ciascun visitatore, creando un ritratto unico e fuggevole di ciascun individuo. E’ lo stato d’animo del visitatore a ispirare alla cantante la scelta del brano, generando un’opera poetica e delicata. In opere come “Kiss”, dove una coppia di attori si abbraccia e si bacia per mezz’ora, ripercorrendo contemporaneamente tutti i baci iconici della storia dell’arte, da quello scolpito da Auguste Rodin fino a Made in Heaven di Jeff Koons, Sehgal mette in scena un’arte che non si può né fotografare né registrare, spingendo lo spettatore a riconoscere l’esperienza vissuta come l’essenza stessa dell’opera. L’arte di Sehgal, per sua stessa natura, è destinata a svanire nel tempo, esistendo esclusivamente negli occhi e nella memoria di chi la vive.
Allo stesso modo, le opere video e installative di Bill Viola, che esplorano temi universali come la vita, la morte e il ciclo del tempo, richiedono una comprensione più profonda delle riflessioni spirituali e filosofiche che l’artista esplora attraverso il suo linguaggio visivo. Un esempio significativo è l’installazione “Ocean Without a Shore” (2007), presentata nella chiesa di San Gallo durante la Biennale di Venezia. L’opera si compone di tre altari su cui appaiono figure umane che, emerse dall’acqua, sembrano tornare in vita, attraversando un muro liquido che le separa dalla realtà. Uomini e donne, di diverse età e razze, esprimono emozioni di sofferenza, piacere e passione, per poi dissolversi nuovamente nell’acqua, tornando a essere ombre di polvere e cenere. Qui, il valore culturale dell’opera non risiede in un semplice atto di osservazione, ma nell’introspezione che essa stimola, invitando lo spettatore a riflettere sul senso della vita e sulla transitorietà dell’esistenza.
L’arte contemporanea, proprio per la sua natura di ricerca e sperimentazione, porta con sé una forza disorientante che non va vista come un ostacolo, ma come una chiave di lettura, un invito a ridefinire cosa sia l’arte e come essa possa essere percepita e quale sia la sua funzione sociale. La confusione o il giudizio iniziale di fronte all’ignoto sono reazioni naturali, ma l’arte contemporanea sfida proprio questi limiti, invitando a raccogliere cosa ci sia oltre. Per comprendere pienamente l’arte di oggi, è necessario contestualizzarla in un panorama culturale globale in cui le tematiche politiche, sociali e identitarie rivestono un ruolo centrale, offrono semi di riflessione sull’impiego creativo dei medium, sull’analisi divergente delle questioni affrontate, sulle visioni generate, grazie alla mediazione dei sensi. Gli artisti contemporanei, immergendosi nelle complessità del nostro tempo, diventano artigiani del linguaggio, capaci di risvegliare nei loro spettatori una meditazione sulla condizione dell’esistenza umana, sull’incontro tra mondi visibili e invisibili, in una tensione spirituale capace di generare interrogativi e quindi di aprire diverse possibilità di conoscenza. In questo contesto, l’arte si fa esperienza, relazione, e, soprattutto, trasformazione.
“Ogni senso è un apparecchio di interpretazione di cose sconosciute.” Paul Valéry