
È nel cuore di Scicli che pulsa il battito di un’arte singolare, dove mente e mani lavorano insieme in un linguaggio fatto di gesti antichi, materia viva e tempi dilatati.
Incontrare Loredana Amenta, giovane ma già eccellente incisore e stampatrice, significa entrare in contatto con un’arte che sfugge alle logiche digitali della rapidità e dell’immediatezza, e che esige presenza viva, ascolto, pazienza. Un processo rituale che Loredana incarna e racconta, dialogando costantemente con il proprio lavoro, in una profondità che si fa svelamento, purificazione, immaginazione.
È in questo fare arte che il processo stesso diventa una forma di resistenza e di verità.
Come hai deciso di aprire una stamperia? E nel 2025, cos’è una stamperia d’arte?
In realtà, non ho mai deciso davvero di diventare una stampatrice. Dopo gli studi al Bisonte di Firenze, ho sentito il bisogno di creare uno spazio dove le persone potessero assaporare quella stessa emozione che ho provato la prima volta tenendo una lastra tra le mani. È stato l’inizio di una passione che mi ha avvolta completamente. Una stamperia d’arte, oggi, è proprio questo: un luogo in cui si custodisce una forma di artigianato che si nutre di tempo, silenzio e gesti ripetuti. È un laboratorio, certo, ma anche un luogo di incontro, di trasmissione, di scoperta.
Quando si è acceso il sacro fuoco della passione per l’arte dell’incisione?
Il mio percorso è stato artistico fin da subito, in modo molto naturale. Sono sempre stata guidata da un grande amore per l’arte e da una sorta di navigatore interno, aiutata da coincidenze fortunate e persone straordinarie che ho incontrato lungo la strada. La mia famiglia mi ha sempre dato tutto il supporto possibile e la libertà di fare e anche di sbagliare. Dopo le medie mi sono iscritta al Liceo artistico di Modica, una realtà entusiasmante appena nata, con un progetto illuminato del preside Rossino e coadiuvato da professori eccezionali come Sandro Bracchitta, Buscema e Paolo Nifosì. Passavamo, ogni giorno, sette ore a disegnare, a confrontarci, a vivere l’arte. Poi sono andata all’Accademia di Belle Arti di Catania, scegliendo pittura e beni culturali. È lì che ho scoperto l’incisione calcografica. Ricordo perfettamente la sensazione di avere una lastra in mano per la prima volta: incidere, stampare e vedere emergere l’immagine che avevo solo immaginato. Usavo di tutto, persino forchette, per graffiare, sperimentare, scoprire. Mi sono laureata con una tesi sulla Fornace Penna di Sampieri e subito dopo ho iniziato a lavorare con un gallerista di Modica. È stato lì che, seguendo il consiglio dell’artista Sandro Bracchitta, ho deciso di perfezionarmi come maestro incisore al Bisonte di Firenze. Lui mi disse: “L’incisione è un’esperienza di vita!”. E aveva ragione. Da quel momento, tutto è cambiato.
Cos’è che ti affascina ed emoziona così tanto nell’incisione?
Credo sia proprio il fatto che non vedi subito cosa stai creando. Diversamente dalla pittura, in cui il gesto e il colore sono immediati, nell’incisione tutto è rimandato: lavori su una lastra, incidi un segno invisibile, poi arriva l’acido, il tempo, la stampa… e solo allora scopri cosa hai fatto. È un continuo gioco tra controllo e sorpresa, tra tecnica e intuizione. Ci sono infinite variabili: la temperatura del mordente, il tipo di carta, il modo in cui pulisci la lastra, la pressione del torchio… È sempre un’incognita. A volte stampi e pensi: “Ma cosa ho fatto?” Altre volte dici: “Wow, l’ho fatto io!”. E ogni volta è una piccola grande conquista.
Com’è nato il tuo spazio?
Non è stato un percorso lineare né facile. All’inizio sperimentavo con un piccolo torchio a casa di mia nonna. Poi, nel 2019, ho creato “Amenta Incisioni”, il mio primo vero spazio. Lì ho iniziato a collaborare con artisti straordinari. Col tempo, ho capito che quello che facevo veniva apprezzato, che le opere potevano essere vendute e che quindi tutto questo poteva diventare anche un lavoro. Così, due anni fa, insieme al gallerista Giuseppe Lo Magno, abbiamo aperto “Bassi Beneventano”, uno spazio condiviso ma con linguaggi e realtà distinte, in un contenitore straordinario, il settecentesco Palazzo Beneventano a Scicli. Ogni mattina, quando metto la chiave nella porta di Palazzo Beneventano e sento gli occhi dei mascheroni barocchi che mi guardano dall’alto, mi dico: “Ma è tutto vero?”
La prima volta che sono entrata in questo spazio, ho avuto l’impressione di varcare la soglia di un luogo senza tempo, di un tempo sospeso dove ogni gesto segue una ritualità antica, che ha il sapore della meditazione…
Ogni azione che compio ha un ritmo tutto suo, un’eco del 1450, anno in cui questa tecnica ha preso forma. È un lavoro fatto di tempi dilatati, che richiede attenzione, cura e rispetto assoluto per ogni passaggio. La mia vita si divide tra la frenesia del quotidiano e la lentezza necessaria di questo processo, che non può essere forzato: se non rispetti i tempi, rischi di compromettere tutto. È un’attività profondamente meditativa, che richiede presenza, pazienza e centratura, qualità che col tempo ho imparato a portare anche nella mia vita e nelle relazioni, rafforzando la mia positività e il senso di gratitudine che provo verso la Vita e verso la Bellezza che mi circonda.
C’è un momento, tra tutti, che ti emoziona di più?
In realtà, ogni fase del processo porta con sé un’emozione diversa, e ognuna ha una sua magia, seppur nella ripetizione dei medesimi gesti. Si parte con il taglio, la ceratura, l’incisione della lastra. Poi arriva la morsura con l’acido, la rimozione della vernice e la prima visione dell’immagine che prende forma. A quel punto decido se ripetere il processo, quante lastre servono ancora, finché non arrivo al bon à tirer, la prova “buona per la stampa” che sancisce la fine della fase creativa e l’inizio della tiratura. Se la lastra è mia, ogni momento è un mix di emozione e responsabilità. Quello che incido è una parte di me: un solco racconta qualcosa che mi appartiene profondamente. Sento una vibrazione costante, un fermento incessante, e al tempo stesso una libertà immensa nel momento in cui guardo la stampa e mi dico: “Funziona”. In quel preciso istante, sono incisore e stampatore insieme, e tutto dipende solo da me. Diverso è quando sono gli artisti a richiedere incisioni e stampe. Rosa Cerruto è stata la prima artista con cui ho collaborato. In lei ho trovato una complicità e una pacatezza che mi hanno permesso di iniziare questo percorso in maniera naturale, senza timori. La sua raffinata dolcezza che riversa in ogni segno, in ogni sfumatura, è stata per me puro stupore da sempre. Con Giovanni Robustelli il processo è intenso: lui è l’unico artista che arriva e comincia a disegnare direttamente sulla lastra. Nessuno schizzo preparatorio, nessuna bozza. Solo il gesto, puro e istintivo. Ogni volta nasce un’incognita, un mistero che si rivela solo alla fine, dopo settimane di lavoro. Con Angelo Ruta, invece, la sfida è diversa. Partiamo sempre da un’opera già esistente – un pastello, un acquerello, una matita colorata – e il mio compito è trasformare quella leggerezza e quella freschezza in qualcosa di compatibile con la durezza del metallo. Devo tradurre le sue linee, i suoi segni, le sue campiture in tecniche incisorie che convivano armonicamente in sovrapposizione. È un calcolo folle fin dall’inizio: ogni lastra, ogni matrice, ogni passaggio deve allinearsi perfettamente come una costellazione. Basta un errore di tempo o di pressione, e il blu diventa verde, il giallo invade tutto, l’equilibrio si perde. Ma quando tutto si incastra… allora sì, accade la magia. Ho sempre riconosciuto in me un dono grande: la capacità di percepire e comprendere il colore. Mi rendo conto che non tutti hanno questa capacità, è qualcosa che considero un dono. Quando guardo un colore, so istintivamente come combinarlo. Per esempio, so che un rosso, un giallo fluorescente e una punta di trasparente, mescolati nel piattino, daranno vita a una tonalità unica. È una conoscenza che sento dentro di me, come se il colore avesse un linguaggio tutto suo che riesco a decifrare.
Mi fai pensare al fotografo che si specializza in stampe d’arte, proprio come tu hai scelto l’incisione anziché la pittura…
L’incisione è una tecnica antica che offre una texture unica, legata esclusivamente a quel linguaggio. Molti vedono l’incisione come un mezzo per creare multipli, ma in realtà è una tecnica espressiva, proprio come la pittura, l’acquarello o la matita. Ogni segno inciso su una lastra, che viene poi trasferito su carta cotone bagnata grazie alla pressione, è un risultato che può essere ottenuto solo con questa tecnica. Nessun altro mezzo può replicarlo. L’incisione, quindi, è un’opera unica, anche quando viene riprodotta come multiplo. Se prendi una tiratura, ad esempio, di quaranta esemplari, e li metti tutti insieme, nessuno sarà esattamente uguale all’altro. Ogni stampa è un piccolo esemplare nato dalle mie mani, dalle mie imperfezioni e dai miei gesti. Ogni volta, infatti, che pulisco la lastra, accarezzo il colore, rimuovendo l’eccesso per lasciare solo ciò che è intrappolato nei solchi. Ogni stampa è unica, perché la mano, la pressione e la gestione delle lastre cambiano sempre leggermente. Quando poi si lavorano più lastre in dialogo tra loro, il risultato finale è ancora più ricco. Le punte e i bulini, che sostituiscono i pennelli, creano una texture che non si potrebbe ottenere in altro modo.
C’è uno strumento che ami più di tutti?
Accolgo e respingo allo stesso tempo questa domanda, perché ho un legame profondo con più di uno. Ma se devo scegliere, non posso non partire dalla calcografia, che è la tecnica con cui sono nata artisticamente. Quando sono uscita dal Bisonte nel 2011, tutto ciò che mi faceva sentire davvero centrata ruotava attorno a lei e al torchio a stella, il mio primo amore. Quel torchio è stato il primo acquisto importante, realizzato con il supporto dei miei genitori. Ricordo ancora il giorno in cui la gru lo sollevò fino al terzo piano della casa di mia nonna, in una stanza di appena 3×3 metri. Il torchio occupava quasi metà dello spazio, e tutto il resto era organizzato con scaffalature Ikea incassate tra i muri. Pesava 350-400 kg. È nato tutto lì. Quel torchio è per me l’emozione, la memoria, il mestiere. Oggi, però, il mio orgoglio è anche la mia Albion Press del 1846, una pressa verticale tipografica, nata per la tipografia e per lavori meno complessi. Non richiede la stessa empatia e alchimia del torchio a stella, ma presuppone una precisione d’occhio e una pazienza fuori dal comune. L’ho comprata in piena pandemia, strappandola al rischio di essere rottamata come ferro vecchio. È stato un atto di coraggio, anche economico, perché non avevo tutti i fondi, ma l’ho fatto per realizzare un sogno, usando ogni risorsa possibile.

Hai progetti per il futuro?
I miei progetti nascono come scintille, poi si trasformano in qualcosa di concreto. Quest’anno ho scelto di rallentare, almeno per quanto riguarda le mostre, collocandole se non verso la fine dell’anno, quando forse metterò in piedi qualcosa di speciale. In questo momento ho bisogno di concludere alcune edizioni aperte, di stampare. Le idee nascono dalla testa, ma prendono vita solo attraverso le mani e la testa viaggia veloce, mentre le mani sono lentissime. Quindi ho deciso di fermarmi un attimo, dedicarmi alla stampa, finalizzare ciò che è già nato. Fortunatamente, oggi ho anche una persona che mi supporta nella stampa, seppur in modo discontinuo. Questo mi aiuta a portare avanti il lavoro con più continuità, ma rimane comunque un processo profondamente personale.
La lentezza dell’incisione può ancora affascinare i giovani?
Sì, anche oggi ci sono ragazzi capaci di farsi toccare da questa lentezza, anche se sono pochi. Ieri, ad esempio, ho partecipato a un incontro con Sandro Bracchitta e Angelo Ruta all’Accademia, con gli studenti del biennio. Pur vivendo immersi nel digitale, grazie a Sandro hanno la fortuna di lavorare fisicamente nei laboratori di incisione. Quando tengo dei workshop o percorsi nelle scuole, propongo sempre di spiumare una lastra per almeno 10 minuti, spiegando che altrimenti si crea una reazione chimica che la rovina. E lì, vedo nei loro occhi lo stupore: sono abituati al clic, all’immediatezza, e faticano a comprendere il valore di un gesto ripetuto lentamente, con cura. Alla fine, gli unici veri apprendisti sono quei pochi folli come me. Attualmente, ho un assistente che si occupa di serigrafia e mi supporta in alcuni momenti del processo, ma il lavoro rimane profondamente artigianale, lento, e quindi… per pochi.