
Sebastiano Leta, classe ’76, scultore e non solo. Qual è stato il percorso che ti ha fatto scoprire la tua creatività?
Ho iniziato il mio percorso artistico studiando decorazione all’Accademia di Belle Arti di Palermo, per poi proseguire con pittura all’Accademia di Carrara. È stato un viaggio formativo intenso, che mi ha permesso di esplorare linguaggi espressivi diversi e di approfondire la mia visione artistica. Ho scelto di vivere 15 anni a Pietrasanta, in Toscana, tra il 2004 e il 2020. Lì ho lavorato a stretto contatto con il marmo, la ceramica e i gioielli. Da 5 anni sono ritornato in Sicilia.
Un diploma in Decorazione e Pittura all’Accademia di Belle Arti di Palermo, conseguito dopo il diploma di ragioniere. Due indirizzi totalmente diversi, com’è avvenuto questo passaggio?
Fin da ragazzo ho sempre avuto una forte spinta creativa. Anche durante gli studi tecnici, il disegno, la materia, la manualità erano sempre presenti nella mia vita. In Accademia ho trovato gli stimoli giusti per esprimermi. È stata una scelta di cuore, e col tempo si è rivelata la mia vera strada.
Gli anni della formazione a Palermo e poi Pietrasanta (LU), non una cittadina qualunque ma la patria dell’arte, del marmo, il luogo ideale per uno scultore, eppure sei tornato nella tua terra, in Sicilia, perché?
In Accademia ho gettato le basi per costruire il mio linguaggio artistico. Poi a Pietrasanta, ho vissuto un periodo straordinario: 15 anni immerso in un contesto dove l’arte non è solo cultura, ma anche quotidianità. Lì l’arte, è parte viva della città. Ho avuto la fortuna di lavorare con materiali nobili, di collaborare con artigiani, artisti, fonderie, laboratori… È stato un lungo respiro creativo, intenso e ricco. Eppure, a un certo punto, qualcosa era cambiato ed ho sentito che dovevo tornare in Sicilia e tornare non è stato un ripiego, ma una scelta consapevole: volevo portare con me tutto ciò che avevo imparato, e rimettere le mani nella mia terra, in senso letterale e simbolico.
A Carrara hai conseguito un ulteriore diploma e per molti anni hai avuto il tuo laboratorio artistico alla Polveriera, un luogo non convenzionale, raccontaci meglio…
Sì, dopo l’esperienza di Palermo con i quattro anni di corso di Decorazione, ho voluto continuare ad approfondire, e così mi sono iscritto all’Accademia di Carrara, questa volta in Pittura. Il cuore pulsante del mio percorso a Pietrasanta, è stato sicuramente la Polveriera. Un luogo davvero particolare, non convenzionale: un antico laboratorio del marmo ri-trasformato in spazio artistico aperto a tutti. Aveva un’energia fortissima, una bellezza ruvida, autentica. In quegli spazi industriali e un po’ selvaggi, ho aperto il mio laboratorio artistico e per molti anni è stato il mio rifugio creativo. Parlo al passato perché purtroppo quel luogo non esiste più, divorato dal consumismo edilizio. La sua distruzione è stato il motivo principale per cui ho lasciato la Toscana. Alla Polveriera condividevamo lo spazio con altri artisti, artigiani, creativi di ogni tipo. Era un crocevia di esperienze, culture, materiali, idee. Il confronto era quotidiano, spontaneo, spesso sorprendente. Lì ho lavorato con il marmo, certo, ma anche con la ceramica e con i gioielli, sempre cercando un equilibrio tra forma, materia e significato. Quel periodo ha lasciato un segno indelebile nel mio percorso. È lì che ho davvero capito cosa significa vivere di arte, in ogni senso.
Cosa ti manca degli anni in Toscana?
Ci sono molte cose che mi porto nel cuore degli anni trascorsi in Toscana, e inevitabilmente alcune mi mancano. Mi manca, prima di tutto, l’energia di Pietrasanta: una cittadina che vive e respira arte ogni giorno. Cammini per le strade e incontri scultori, pittori, galleristi, collezionisti… è un continuo scambio, un fermento creativo costante. Quel senso di comunità artistica, di appartenenza a un luogo dove l’arte non è marginale ma centrale, è qualcosa di raro e prezioso. Mi manca anche la materia, nel senso fisico del termine: la presenza dei laboratori artigiani, delle fonderie. In Toscana la materia è “a portata di mano”, e hai sempre modo di sperimentare, di provare tecniche nuove, di confrontarti con chi ha decenni di esperienza. Quel tipo di artigianalità, così raffinata ma allo stesso tempo legata alla tradizione, è davvero un patrimonio unico. E poi, ovviamente, mi mancano le persone: amici, colleghi, conoscenti, con cui ho condiviso non solo il lavoro, ma anche la vita di tutti i giorni. Detto questo, la nostalgia non è mai malinconica: sento che ogni fase ha avuto il suo tempo e il suo valore. E ora è la Sicilia che mi dà nuovi stimoli, nuovi orizzonti.
Tra le tue tante mostre, una importante in Norvegia e una in Germania dove hai esposto le creazioni realizzate per la tua seconda tesi di laurea, dal titolo “Gioielli indiscreti”, come sono state quelle esperienze all’estero? Se volessimo fare un paragone tra quelle esperienze e altre fatte in Italia?
Quelle mostre nel Nord Europa sono state delle esperienze significative del mio percorso. “Gioielli indiscreti”: dodici cinture di castità gioiello, era una riflessione sul corpo, sul desiderio, sul controllo, ma anche sul valore simbolico e materiale del gioiello. Un lavoro provocatorio, certo, ma sempre rispettoso. Portarlo all’estero ha significato metterlo in dialogo con un pubblico culturalmente distante, meno condizionato da certi retaggi, forse più aperto a letture concettuali e meno giudicante su temi legati al corpo e alla sessualità. Lì ho sentito una grande libertà di espressione. Il pubblico era attento e pronto a fare domande. Per me è stata una boccata d’aria, anche per il mio modo di vedere l’arte: mi ha fatto capire quanto sia importante uscire dal proprio contesto per testare davvero la forza del proprio messaggio. Se dovessi fare un paragone con l’Italia, direi che il contesto italiano è forse più complesso: c’è molta qualità, certo, ma anche una certa rigidità, un bisogno di “classificare” l’opera, di inserirla in cornici più rassicuranti. Ho esposto in tanti luoghi anche qui, e ogni mostra ha avuto la sua dignità e il suo pubblico, ma spesso ho avvertito un maggiore pudore, soprattutto quando l’opera tocca temi legati al corpo, al femminile, al simbolico.

Torni in Sicilia, ma non al tuo paese natale. Quali stimoli hai trovato a Cefalù (Pa), culla della Civiltà Normanna e dello svago estivo?
Sono tornato in Sicilia poco prima dell’inizio della pandemia, ma non a Mistretta, che comunque porto sempre con me. Ho scelto invece di stabilirmi a Cefalù, e non è stata una scelta casuale. Cefalù è una città carica di storia e di bellezza la sua anima normanna, con la leggerezza del mare, con la vitalità dello svago estivo, con un turismo curioso ma anche colto. È un luogo dove sacro e profano si sfiorano continuamente, dove l’antico convive col presente. E questo per un artista è uno stimolo fortissimo. Durante il periodo della pandemia, Cefalù, come d’altronde tutto il mondo, è diventata quasi una dimensione sospesa, un’occasione per riflettere e capire che questo ritorno non è stato un ripiego, ma una nuova ripartenza, un nuovo ciclo.
Per le tue creazioni artistiche spazi dall’utilizzo dell’argilla ai metalli preziosi, come l’oro, hai persino creato un profumo con una decorazione gioiello, ci sono nuove esplorazioni all’orizzonte?
Per me, ogni materiale porta con sé un ritmo, un carattere diverso. Per questo motivo non mi sono mai voluto limitare nelle mie sperimentazioni. Quel profumo, in particolare, è nato come un’opera multisensoriale, un’idea che andasse oltre l’oggetto e diventasse esperienza. La boccetta, pensata come un piccolo scrigno-gioiello, è diventata contenitore di memoria e identità. Mi affascina molto l’idea di incrociare arti diverse e collaborare con artigiani di settori specifici. Per me ogni nuovo materiale è una nuova voce da ascoltare, ogni tecnica è un nuovo gesto da imparare.
Le tue mani, i tuoi strumenti più preziosi, di ciò che realizzi quanto é affidato a loro e quanto alla tua mente? Pensi di avere un tuo stile? Come lo definiresti? E’ mutevole?
Le mani per me sono davvero gli strumenti più preziosi. Per ogni artista c’è sempre un dialogo continuo tra la testa e le mani. La mente elabora, sogna, immagina… ma poi sono le mani a guidare, spesso inaspettatamente. Ci sono momenti in cui è proprio il contatto con la materia a suggerirmi strade nuove. Riguardo allo stile, sì, credo di avere un mio linguaggio riconoscibile, fatto di forme essenziali, di simbolismi. Credo che uno stile vero non sia qualcosa che si impone, ma qualcosa che si scopre nel tempo. È come una firma invisibile, che resta anche quando cambi penna, colore o carta.
Qual è stata fino ad oggi per te l’opera più importante che hai realizzato e perché?
Senza dubbio l’ultima scultura in marmo realizzata a Pietrasanta, prima del mio ritorno in Sicilia: un portacero pasquale in marmo, dedicato a mio padre, intitolato “Io sono la luce del mondo”. È un’opera che porto nel cuore perché rappresenta un momento di passaggio, sia personale che artistico. In quel lavoro c’era dentro il mio legame con la materia, la spiritualità, la memoria, l’amore filiale. È stato un atto d’amore e anche un modo per elaborare un dolore, trasformandolo in luce, in simbolo, in presenza. Ci ho lavorato per tre mesi, ogni giorno ed oggi l’opera è esposta in maniera permanente presso la Chiesa Madre di Mistretta. Quell’opera, più di tutte, è stata un punto di arrivo e insieme un nuovo inizio.

Dal 2016 circa, gestisci insieme ad Ahmed Khairallah delle case vacanze situate nel centro storico di Cefalù, siete hosts di eccellenza, perché? Chi sono gli ospiti che scelgono le vostre dimore?
Potrebbe sembrare un’attività apparentemente distante dal mondo dell’arte, in realtà è molto vicina al mio modo di vivere e sentire lo spazio. Gestiamo le due case con lo stesso approccio che ho nel mio lavoro artistico: attenzione al dettaglio, cura per la bellezza, rispetto per il luogo e per chi lo abita, anche solo per qualche giorno. Essere un host, per me, significa accogliere, e l’accoglienza è un gesto profondamente umano e creativo. Ogni casa è stata pensata come uno spazio autentico, dove l’ospite possa sentirsi parte della città, non un semplice turista. Abbiamo cercato di valorizzare l’identità architettonica locale, integrando elementi artistici, materiali naturali, luce e comfort, senza mai perdere il legame con la tradizione. Credo che l’eccellenza stia nei piccoli gesti: nella pulizia impeccabile, nell’attenzione per l’ospite. Ogni persona che accogliamo è un mondo, e ci piace pensare che ognuno possa portare via da Cefalù non solo fotografie, ma anche emozioni vere. Gli ospiti che scelgono le nostre dimore sono molto diversi tra loro ed arrivano da ogni parte del mondo. Molti ritornano, alcuni diventano amici. Quello che li accomuna è la voglia di vivere un’esperienza autentica, di sentire davvero il respiro del luogo. In fondo, anche questa è una forma di arte: creare ambienti dove le persone possano sentirsi accolte, ascoltate, ispirate. E questo, per me, è un privilegio enorme.
Casa Clelia, per esempio è una dimora che si affaccia su Corso Ruggero a Cefalù, ma anche una galleria d’arte; avete introdotto una novità al turismo extralberghiero cefaludese. Spiegaci meglio …
Casa Clelia è un progetto a cui siamo particolarmente legati, perché rappresenta una sintesi perfetta tra ospitalità e arte, tra accoglienza e visione culturale. Situata su Corso Ruggero, non è solo un luogo dove dormire, ma uno spazio che racconta, accoglie, ispira. Abbiamo voluto che Casa Clelia fosse qualcosa di diverso: non una semplice casa vacanza, ma un’esperienza abitativa e artistica. Per questo l’abbiamo pensata anche come galleria d’arte abitata, dove gli ospiti potessero vivere circondati da opere, dettagli, materiali che parlano un linguaggio estetico e sensibile. Le pareti ospitano opere originali, mie e di altri artisti, che cambiano nel tempo e che l’ospite può acquistare. L’idea è quella di rendere ogni soggiorno anche un’occasione di scoperta culturale, un incontro inaspettato con l’arte contemporanea in un contesto storico. I nostri ospiti non cercano solo comfort e bellezza, ma sono curiosi, aperti, desiderosi di vivere qualcosa di autentico, che lasci un segno. L’idea è quella di aprire Casa Clelia alla città: organizzando piccole esposizioni, incontri, presentazioni, momenti di confronto. In questo modo l’arte entra nel quotidiano e si fa presenza reale. È un modo per dare valore al tempo del viaggio, per trasformare l’ospitalità in un gesto culturale. In fondo, anche questo è un atto d’amore verso la nostra terra.
Hai curato personalmente i lavori di restauro di Torre degli Angeli, una torre del XII-XII secolo che ospita anche la tua bottega d’arte, raccontaci di questo luogo a due passi dal Duomo di Cefalù …
Torre degli Angeli è un luogo speciale, quasi fuori dal tempo. Si tratta di una torre arabo normanna, l’unica esistente in città, oltre alle torri del Duomo, incastonata nel cuore del centro storico di Cefalù. Quando l’abbiamo trovata, era in stato di abbandono, ma bastava entrarci per sentire che aveva un’anima potente, carica di storia. Non era solo un rudere: era una voce che chiedeva di essere ascoltata. Con Ahmed, abbiamo seguito personalmente ogni fase del restauro, con un approccio rispettoso, quasi filologico. Non volevamo “modernizzare” o stravolgere, ma piuttosto restituire dignità e vita a uno spazio che era già arte in sé. Ogni pietra, ogni traccia del tempo è stata preservata e valorizzata. Abbiamo voluto che si respirasse ancora il passato, ma con la possibilità di accogliere tutti con il comfort moderno. Oggi Torre degli Angeli è anche la mia bottega d’arte e galleria, e sarà un luogo di incontro, di scambio, di ricerca. È uno spazio vivo, dove creo, espongo, accolgo persone. Non una galleria nel senso tradizionale del termine, ma piuttosto un “laboratorio dell’anima”, dove chi entra può vedere il lavoro nascere, trasformarsi, prendere forma. Le proposte artistiche legate a questo luogo nascono proprio dal suo spirito La torre mi ispira continuamente: con la sua verticalità, con la sua memoria. È come lavorare dentro uno scrigno, che mi accompagna in ogni gesto. E tutto questo è accessibile agli ospiti che decidono di soggiornarvi e che potranno partecipare ai workshop creativi che organizzo. Torre degli Angeli vuole essere un punto di connessione tra arte, storia e vita quotidiana. Un luogo che racconta quella parte di Sicilia che invita chi vi entra a rallentare, ad ascoltare, a guardare davvero.
Visibilità e social, questa società pare si nutra di like, si può fare a meno di questo tipo di esposizione? Come si relaziona lo scultore Sebastiano Leta con la comunicazione di oggi?
Per me l’arte ha bisogno di tempo. Nasce nel profondo e spesso resta invisibile a lungo, prima di trovare la forma giusta per emergere. In questo senso, il linguaggio rapido e spesso effimero dei social può apparire distante dal mio modo di creare. Detto questo, non sono contrario alla comunicazione social. Cerco solo di usarla con misura, con autenticità, senza forzature. La uso come una finestra, non come un palcoscenico. Mi piace condividere scorci del mio lavoro, dettagli del processo creativo, ma senza costruire un personaggio. Credo che si possa vivere e creare anche al di fuori dell’esposizione costante. Quindi sì, i social possono essere utili, ma non devono diventare un fine. Per me restano uno strumento, e come tutti gli strumenti vanno usati con consapevolezza.
La comunicazione ai nostri giorni corre veloce, video brevi, messaggi stringati, immagini scrollate rapidamente e contenuti di ogni tipo, molti discutibilissimi, tutto questo fa bene al mondo dell’arte?
L’arte, come già detto, ha bisogno di tempo. Tempo per essere pensata, realizzata, guardata. Tutto il contrario dell’algoritmo. Non credo che questa modalità di comunicazione rapida faccia davvero bene all’arte. O meglio: può aiutare a diffondere l’arte, ma non necessariamente a farla comprendere. Nello scorrere frenetico di internet, tutto sembra uguale, tutto viene consumato nello stesso modo, senza distinzione tra il banale e il sublime.
Intelligenza artificiale, la tua opinione da artista al riguardo qual è? Ti è capitato di utilizzarla?
Come artista, la guardo con curiosità ma anche con una certa cautela. È uno strumento potente, che può amplificare possibilità espressive, aprire nuove strade Ma, come ogni strumento, non è neutro: dipende sempre da come e perché viene usato. Per me l’opera nasce dalle mani, dal contatto fisico con la materia. Nessuna macchina potrà mai restituire il calore della creta, la resistenza del marmo. L’esperienza sensoriale, emotiva, umana è insostituibile. Non sono comunque contrario all’uso dell’IA in arte. Penso possa essere uno strumento utile, se usato con consapevolezza. Credo che la vera sfida, per gli artisti di oggi, sia proprio questa: accogliere l’innovazione
Giuseppe Sirni, diplomato in pittura all’Accademia di Palermo, vive e lavora a Milano ed è uno dei pittori che espone a Casa Clelia, ci racconta l’arte di Sebastiano Leta così …
Ci conosciamo da oltre trent’anni. Non è solo un amico: è un fratello. La nostra è un’intesa costruita nel tempo, nutrita da dialoghi profondi, da esperienze condivise, da silenzi eloquenti e da una fiducia reciproca che non ha mai vacillato. Scrivere di lui oggi, come artista, è per me un atto di riconoscenza e di affetto, ma anche un’esigenza critica: perché la sua opera merita attenzione, ascolto e sguardo.
Sebastiano è un artista che sfugge alle etichette. Il suo talento non si lascia rinchiudere in una tecnica, in uno stile, in una corrente. È, piuttosto, un flusso creativo in perenne movimento, una metamorfosi continua in cui pittura, scultura, disegno, collage, installazione e persino artigianato si fondono in una visione coerente e personale. Ciò che più colpisce è la naturalezza con cui attraversa linguaggi diversi: ogni tecnica diventa per lui una lingua madre, parlata con agio e profondità.
Non si tratta di eclettismo fine a se stesso, ma di una ricerca sincera, alimentata dalla sua inesauribile curiosità e dalla voglia di mettersi in gioco. Ogni nuovo materiale, ogni nuova superficie è per Sebastiano una soglia: un’occasione per dire qualcosa che prima non era stato detto, per scavare nel visibile e far emergere l’invisibile.
Lontano da ogni forma di narcisismo, la sua arte è sempre relazionale. È un invito all’incontro, un gesto che si apre all’altro. Questo deriva, a mio avviso, anche dalla sua profonda umanità. Sebastiano è una persona generosa, affidabile, capace di ascolto autentico. E questa qualità, che nella vita quotidiana si traduce in presenza e dedizione, si riflette nell’opera: ogni lavoro sembra portare dentro di sé una tensione verso l’altro, un desiderio di comunicare, di costruire ponti tra mondi, culture, sensibilità.
Tra i soggetti più emblematici del suo percorso, meritano un posto speciale i suoi angeli guerrieri e cerimonieri. Figure totemiche, verticali, ieratiche, questi angeli incarnano la tensione tra spiritualità e resistenza, tra sacralità e lotta. Non sono figure evanescenti: sono presenze forti, scolpite con rigore e tenerezza, capaci di proteggere e di ammonire, di custodire e di combattere. Ogni angelo sembra portare su di sé le tracce di una battaglia — interiore o collettiva — e al tempo stesso irradiare una pace che viene da lontano. È qui che Sebastiano rivela la sua capacità di fondere simbolismo e materia, mistero e forma.
Guardando le sue opere — siano esse sculture, vasi, angeli, gioielli o disegni — si percepisce una tensione poetica che trascende il semplice oggetto. Sebastiano lavora come chi custodisce un segreto e lo rivela con pudore, lasciando che siano la materia e la forma a parlare per lui. Ed è in questo silenzio pieno, in questo gesto umile e forte, che riconosco il senso più profondo del suo fare arte.
In un tempo spesso dominato dall’apparenza, Sebastiano Leta ci ricorda che la bellezza ha bisogno di radici, di visione e di tempo. E forse anche di amicizia. Di quella che resiste agli anni, si nutre di stima, e guarda con orgoglio a ciò che cresce nell’altro come un dono condiviso.

Per concludere questo articolo, chiudo con le parole che mi sono giunte dalla Spagna da Adela Cortijo Talavera, professoressa di filologia francese e direttrice di Cultura dell’Università di Valenza …
Sono stata felice nella Torre degli Angeli, per me è stata un’esperienza unica e un’oasi di pace, oltre che motivo di piacere in un’autentica bolla spaziale e temporale. La torre è impregnata del profumo di altri tempi, si tratta di una torre arabo-normanna del XII secolo, accuratamente restaurata dalle ingiurie del tempo, situata nel cuore del centro storico di Cefalù, accanto alla famosa cattedrale, alla piazza principale e alle spiagge. Offre il gusto del passato e il comfort del presente. Salire la mattina a prendere un caffè in terrazza, alle prime luci dell’alba, ascoltando il canto dei gabbiani e godendo di una vista incredibile sulle torri del duomo, sui tetti della città, sul cielo e sul mare, è stata una delle esperienze più belle dei miei viaggi in Sicilia e non solo. Fare colazione, bere del buon vino, cenare o leggere in terrazza è stato un grande piacere, e all’interno ho avuto un’esplosione sensoriale grazie a tutti i dettagli artistici presenti in ogni angolo. Dai colori dei bagni, dalle opere d’arte, soprattutto quelle realizzate dall’artista Sebastiano Leta.