
Quando lo sguardo di Donald Dodd cade per la prima volta sulla mano di Mona Sanders –«un animaletto esotico», una donna «che fa pensare a un letto», come le giovani parigine di Maupassant, che mostrano la pelle, tentatrici in abiti chiari – il maltempo ha interrotto i collegamenti e i servizi, le camere al piano superiore non sono più riscaldate, e lei è adagiata al suo fianco su uno dei tre materassi sul parquet, come la moglie Isabel, davanti al camino. Fuori dalla villa dei Dodd a Brentwood, nel Connecticut, imperversa una bufera di neve e Ray ha fatto perdere le proprie tracce, mentre le due coppie camminavano verso casa.
Basterebbe avere mentito a precipitare Donald nel rimorso, dopo avere raccontato alle due donne di averlo cercato, mentre al contrario è rimasto a fumare nel fienile. E invece le sole colpe che sentirà su di sé, anche quando Ray sarà ritrovato cadavere in fondo alla scarpata, saranno l’invidia per l’infedeltà coniugale dell’amico e la propria debolezza per avere scelto una vita al di sotto delle aspettative, cercando la pace senza trovarla. «Avevo fatto finta. Avevo passato diciassette anni della mia vita a far finta» – confesserà a sé stesso.
È il secondo capitolo di «La mano» (1968) di Georges Simenon (1903 – 1989) e il dramma sembrerebbe già essersi consumato, ma il noir è solo all’inizio. L’opera si colloca tra i romans durs, che il padre del commissario Maigret – una straordinaria macchina da scrivere con fattezze umane, capace di completare in undici giorni un libro, tanto da firmarne tra 450 e 460 in tutta la sua vita – chiamava anche «romanzi romanzi», per distinguerli dai polizieschi e ricondurli al canone di genere; e appartiene al ciclo ‘americano’, insieme a Luci della notte, Tre camere a Manhattan, Delitto impunito, I misteri del Grand-Saint-Georges, I fratelli Rico, La morte di Belle, Il ranch della giumenta perduta, L’orologiaio di Everton, Il fondo della bottiglia, tra gli altri.
A presiedere all’ambientazione, infatti, è l’esperienza del decennio trascorso negli Stati Uniti (1945-1955), quando lo scrittore belga è costretto a lasciare Parigi, per il clima politico del dopoguerra e le accuse di collaborazionismo. Non solo durante l’occupazione tedesca era stato incaricato dal governo di Vichy di occuparsi dei connazionali profughi in Francia, ma il fratello Christian, membro dell’organizzazione paramilitare filo-hitleriana belga Rex, era stato condannato a morte in contumacia, per l’esecuzione di ventisette civili durante una rappresaglia delle SS. Per metterlo in salvo, su consiglio dello scrittore Andre Gide, lo aveva convinto ad arruolarsi nella Legione Straniera, e sotto le armi sarebbe morto nel 1947 in Vietnam, nel dolore della madre per averlo allontanato:«Non volevi forse dire che, a tuo avviso, secondo il desiderio del tuo cuore, io sarei dovuto morire per primo?» – si chiede con rammarico Simenon in Lettera alla madre (1974). All’emergenza pratica tuttavia si abbinano anche «ragioni squisitamente letterarie», secondo il biografo Pierre Assouline (Georges Simenon. Una biografia, Odoya 2014), per il quale lo scrittore «preferisce tentare l’internazionalizzazione e l’esilio piuttosto che la consacrazione letteraria parigina», sebbene forte solo del favore di Andre Gide ed emarginato dall’establishment letterario francese.
Quella nel Nuovo Continente sembra una stagione di palingenesi: si sposta da uno stato all’altro, viaggiando dal Canada verso il Golfo del Messico, attraversando gli stati di New York, Connecticut, Florida, California, Arizona, e documentando l’esperienza vissuta in L’America in automobile (1946). Inizialmente, è lo stesso entusiasmo che nel 1922 lo aveva portato a Parigi da Liegi: all’arrivo a New York avverte «una soddisfazione profonda …come quando alla fine si arriva a casa e ci si rilassa con voluttà. E anche una sorta di allegria» (Memorie intime, 1981). Il viaggio di scoperta coincide con la ricerca di nuovi scenari sociali intorno a sé, città, quartieri, umanità e personaggi, così come aveva fatto in Francia, guardando a Balzac e a Conrad, negli anni vissuti a bordo di una chiatta e di un cutter, lungo i canali navigabili in Francia. Divorzia, sposa la seconda moglie, nascono due dei loro tre figli, rompe i rapporti con l’editore Gallimard e soprattutto, a soli tre mesi dall’arrivo, scrive e continua spasmodicamente a scrivere.
Anche negli Stati Uniti, è un autore celebrato, tuttavia l’agognato successo a Hollywood non arriva, e a insidiare Simenon è l’irrequietezza che non esista un paese ideale in cui vivere, che anche l’America somigli alla «Corte di Francia», che Washington sia «una grande capitale e al tempo stesso una cittadina di provincia in cui si sa tutto di tutti»; che la noia si impadronisca sovranamente di ogni cosa, motivando le partenze improvvise, i tradimenti coniugali, il senso di vuoto e persino la girandola di diecimila donne avute dall’età di tredici anni, delle quali racconterà nella conversazione su Casanova (1977) a Federico Fellini.
I due furono legati da una sincera amicizia, nata nel 1960 al Festival di Cannes, quando La Dolce vita vinse la Palma d’oro, con Simenon Presidente di giuria, tra Henry Miller, Jean Cocteau e Diego Fabbri. Ne era seguita una lunga e vivace corrispondenza, dalla quale trapelano affetto, stima e la «fraternità» sulla natura della creazione artistica. «Simenon ne è l’esempio più luminoso» – dichiarerà Fellini in un’intervista all’Express nel 1969 –«È un medium abitato da visioni. Un creatore è sempre un medium che capta la dimensione fantastica e la rende concreta. Attraverso parole, colori, immagini», definendolo inoltre«un artista sensuale» per il talento nel «contatto fisico con la realtà».
Del resto, questa abilità simenoniana passava anche per la lingua: nei romans durs come nelle storie di Maigret, il registro e lo stile restano immutati, con un lessico ristrettissimo (a chi gli chiese conferma del fatto di usare solo duemila parole, Simenon rispose che forse erano troppe), privo di ricercatezza letteraria, e con una semplicità ottenuta al prezzo di una revisione rigorosa, di tagli e della scelta di mots-matière, precisissime e in grado di restituire la sostanza della reazione dei sensi.«Scrivo usando parole-materia» – spiegava Simenon in un’intervista a Le Monde nel 1965 –«La parola-materia è l’equivalente del colore puro. Sono parole che hanno per tutto il mondo lo stesso significato. Se prendo una parola astratta, non ci sono tre persone che danno a essa lo stesso valore» (cit. in G. Carofiglio, La manomissione delle parole, Rizzoli 2010).
In dialogo con il regista italiano, che gli confiderà le proprie incertezze creative nel corso delle riprese di Casanova (1976) e La città delle donne (1980), Simenon tornerà sull’impossibilità di argomentare quell’ irrequietezza, la difficoltà e il vuoto nei rapporti umani. L’unica fiducia è nella creazione artistica: nell’intraprendere un progetto letterario, di sé Simenon diceva di entrare «in stato di romanzo», mettendosi nella pelle del protagonista, costruendone il ‘romanzo privato’ – ovvero le origini, gli studi, la famiglia – e scrivendo così un capitolo al giorno, fino alla fine. È un procedere attraverso l’osservazione, la sedimentazione e l’elaborazione, che soggiace all’autorealizzazione dell’inconscio di Carl Gustav Jung, che per Fellini era «un compagno di viaggio, un fratello più grande, un saggio, uno scienziato veggente».
Ma anche Simenon è una figura mistica per il regista, e gli scrive di averlo sognato.«Al centro di una radura erbosa, c’è una costruzione a forma di torre (…). Vedo una stanza imbiancata a calce come una cella, c’è un uomo, un monaco…è seduto e attorno ci sono una decina di bambini e bambine simpaticissimi che ridono, scherzano, gli toccano i sandali, il cordone del saio. Infine l’uomo si volta: è Simenon. (…) Una voce lo descrive e dice cosa fa lì: «Dipinge il suo nuovo romanzo.(…) È un romanzo bellissimo su Nettuno» (agosto 1976). Fellini ne ricava un’interpretazione utile a portare avanti il suo Casanova, che non esita a condividere con l’amico, individuando l’autorità nella torre e la profondità dell’indagine nell’aura del dio marino. Simenon ne è lusingato e conferma la loro fraternità artistica: «In due diverse forme d’arte noi perseguiamo lo stesso fine: una più profonda conoscenza dell’uomo, per non dire dell’umanità…in modo anti-intellettuale. (…) Siamo come spugne, assorbiamo la vita senza saperlo e la restituiamo poi trasformata, ignari del processo alchemico che si è svolto dentro di noi» (9 novembre 1976). E anche davanti al proprio successo, Simenon continua a sentirsi ignaro ancora un anno dopo:«Il mio sogno era di avere una stanzetta in una via piena di negozi, e di scrivere per guadagnarmi il pane, niente di più. Me ne sarei stato lì a guardare dalla finestra la strada, la vita scorrere sotto di me. Non ho mai avuto grandi ambizioni».
Quello che lo scrittore professa è un certo pessimismo, che esclude la speranza che l’uomo possa trovare pace, che persino scrivere sia «una vocazione all’infelicità». A suo avviso, la pace è un’invenzione delle religioni e non si può essere ottimisti per la società moderna.«Non c’è niente che ci determini, siamo un momento impercettibile dell’evoluzione umana» (in Conversazione su Casanova, 1977), lasciando intendere come la reciproca incomprensione possa generare disamore e odio.
In «La mano», quindi, il mal di vivere di Donald – un avvocato che ha scelto la vita in provincia anziché la carriera in città, e la proiezione della propria madre nella moglie – si trasforma in male a danno di un altro: non è innocente, ma è banale, inspiegabile; non conosce la violenza premeditata, ma è un fatto che accade, in cui il giudizio personale del responsabile non trova spazio, dinanzi all’ossessione che si è impadronita di lui, a ribadire che la sua esistenza è fatta di finzione, che in un certo qual modo lui è l’assassino di Ray, che solo nella mano di Mona ci sia vita, riscatto, speranza e desiderio.
«Allungò la mano per stringere la mia e rividi quella mano sul parquet del nostro living room, rischiarata dalle fiamme del camino» – la descrive pochi giorni dopo, quando raggiunge la donna a New York, per curare le pratiche successorie in veste di legale. Come a Brentwood, la mano è una seduzione postuma: alla sua prima apparizione, il desiderio di uccidere Ray si è compiuto, e alla seconda i due sono già amanti, senza sentimentalismi. «Non siamo innamorati. non sono neanche sicuro di credere nell’amore, in ogni caso non nell’amore che dura tutta la vita» – dice a sé stesso. Eppure, quando più avanti Mona lo incontrerà per dirgli addio perché ha accettato una proposta di matrimonio, proverà a chiederle di salire ancora un’ultima volta a casa sua, in un’accidia vischiosa, che ricorda i personaggi de La camera azzurra (1964).
Nessuna mano salverà dunque Donald dall’angoscia della propria solitudine, adesso che è impossibile tornare indietro. Il contrappasso alla morte di Ray è la condanna a vivere in gabbia, in una condizione di delirio dilatata all’estremo, che nel roman dur sostituisce la triade ‘delitto-indagine-soluzione’ del poliziesco. Simenon conosceva bene la gabbia della creazione artistica, nella forma di una stanza trasparente su strada in cui, all’esordio a Parigi, era stato esposto dagli editori al pubblico, a riprova della sua velocità di produzione romanziera. L’aneddoto è citato da Andrea Camilleri (1925-2019): in veste di produttore televisivo de Le inchieste del commissario Maigret, incontrò Simenon, oltre a conoscerne l’opera, traendone ispirazione per le inchieste del commissario Montalbano e per i suoi romanzi noir. E gabbia era anche quella del labirinto/carcere – cogliendo il potere di dare la morte anche per omissione – per cui Leonardo Sciascia apprezzava particolarmente i ‘romanzi americani’ di Simenon, nell’ambito della difesa del giallo e del sostegno al suo ingresso nel canone letterario.
Tra tutte, la gabbia più asfittica e terribile è la vita con la moglie Isabel, la carceriera di una vita in cui Donald non si riconosce più. Lei è «la moglie remissiva per eccellenza. Non protesta. Si limita a guardarti e a giudicare», la descriveva nel raffronto con la magnetica Mona al party degli Ashbridge, lontano dalla mondanità sfavillante dei romanzi di Fitzgerald: Harold è un uomo attempato, la terza moglie Patricia ha appena trent’anni e lo tradisce in bagno con Ray. Dell’amore intenso tra Scott e Zelda, non c’è traccia.
Se mai c’è stato, il fasto di Gatsby e dei Roaring Twenties è evaporato già nell’incipit del romanzo, quando Donald è nel fienile anziché a cercare l’amico disperso, nell’attesa scandita dalle sigarette, in un tempo sospeso come nei paesaggi di Edward Hopper, nel senso di vertigine davanti al baratro.
«Avevo iniziato, chissà perché, a strappare un angolo della verità tutti i giorni, a vedermi riflesso in uno specchio diverso, e adesso tutto l’impianto più o meno rassicurante della vecchia verità cadeva a pezzi». A cadere e morire nella scarpata è Ray, ma è Donald a precipitare nell’abisso, come l’avvocato Jean-Baptiste Clamence di Albert Camus (1913-1960), che si lascia andare verso la caduta, la rivelazione della cattiva coscienza propria e altrui: «Quanti delitti commessi semplicemente perché il loro autore non poteva più sopportare di essere in colpa! Tempo fa conobbi un industriale con una moglie perfetta, che tutti ammiravano e che nondimeno lui tradiva. Quell’uomo era letteralmente divorato dalla rabbia di trovarsi dalla parte del torto…alla fine, il suo torto gli divenne insopportabile. E che cosa crede che abbia fatto? (…) L’ha uccisa».
L’epilogo è già scritto e non promette alcuna redenzione al protagonista. Come nel racconto di Camus, anche Donald cederà all’odio, fino a quando gli sarà insostenibile «andare a sbattere contro gli occhi di Isabel», che ha rimosso dal fienile le tracce delle sigarette per tacere la sua presenza, ne conosce l’infedeltà e sembra leggerne i pensieri. Nell’andamento allucinato del suo vagare verso una via d’uscita inesistente, l’arma nel comodino realizzerà il potere di morte esercitato su Ray: non sarà più un’omissione, ma l’affermazione di un desiderio inconscio sin dalle prime pagine del romanzo a determinare il seguito degli eventi.
Presentandolo al pubblico molti anni dopo avere lasciato gli Stati Uniti, ormai rientrato in Europa dal 1955 prima a Parigi, poi a Losanna, dove resterà fino alla morte, persino lo stesso autore definirà «crudele» questo romanzo, lasciando il lettore a interrogarsi sul destino ultimo del protagonista, in un paesaggio reale e letterario che forse Simenon doveva avere attraversato e conosciuto. Del resto,«Senza il dono inspiegabile dell’assimilazione» – scrive ancora il biografo Pierre Assouline –«l’alchimista Simenon non avrebbe potuto trasformare il piombo della vita di Georges nell’oro della finzione letteraria».
Riferimenti bibliografici:
• Georges Simenon, La Mano (Adelphi, 2021)
• Georges Simenon, L’America in automobile (Adelphi, 2023)
• Georges Simenon, La camera azzurra (Adelphi, 2003)
• Federico Fellini, George Simenon, Carissimo Simenon, mon cher Fellni. Carteggio di Federico Fellini e Georges Simenon (Adelphi, 1998)
• Italo Moscati, Fellini & Fellini. Da Rimini a Roma, inquilino a Cinecittà (Rai Eri-Ediesse, 2010)
• Albert Camus, La caduta (Bompiani 2003)
• Andrea Camilleri, Il tailleur grigio (Oscar Mondadori, 2008)
• Guy de Maupassant, La sconosciuta in Raccolta completa delle novelle di Guy de Maupassant (Casa Editrice Bietti Milano, 1936)
• Julia Kristeva, Hanna Arendt. La vita, le parole (Donzelli editore, 2006)
• Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole (Rizzoli 2010)