Vincent Van Gogh definì la sua vita come “la discesa infinita”. Uno dei suoi dipinti più famosi, La Notte Stellata è quasi il simbolo del suo travagliato percorso di vita. Oramai da tutte le fonti più attendibili si è accertata che il dipinto fu pensato, concepito e disegnato in una delle sue ultime albe durante la sua restrizione nel manicomio di Saint-Remy, poco tempo prima di morire. Qualsiasi alba prelude all’inizio di un nuovo giorno ed è associata comunque nella maggior parte dei casi ad un inizio, ad una rinascita, per Vincent, invece, la sua alba rappresentò la fine definitiva della sua tormentata vita. Non sono un critico d’arte, ma questo dipinto ha sempre suscitato in me suggestioni assai particolari proprio perché appare quasi come il simbolo della sua vita, associato all’altro atto, non distante in termini di tempo, del taglio dell’orecchio. Sia La notte stellata che il taglio del suo orecchio, da lui stesso testimoniato da un autoritratto, sono eventi che se presi singolarmente non dicono molto, ma che dicono moltissimo se inquadrati nel contesto della sua vita. Vincent Van Gogh nasce nel 1853 vive una breve e dolorosissima esistenza, fino alla sua morte avvenuta nel 1890, tutta in povertà, pellegrinaggio, elemosine, trovando rifugio di volta in volta in chiese, monasteri e malfamate osterie, ricoveri in manicomio, dipingendo al contempo oltre 900 dipinti. Nel 1987, uno dei suoi dipinti più famosi, I Girasoli, fu venduto ad un’asta di New York per oltre quaranta milioni di dollari, purtroppo lui era morto quasi un secolo prima, disperato, a trentasette anni, sconosciuto e poverissimo. Sorvolando sui meriti che la società tutta gli attribuì solo dopo il riconoscimento dei suoi dipinti, visse dimenticato e allontanato da tutto e da tutti, come un disgraziato che diffondeva intorno a sé ribrezzo e infelicità. Eppure ha riempito tutti noi di una bellezza nuova e senza paragoni, facendo della sua esistenza una vicenda straordinaria, la storia di un piccolo uomo che rivoluzionò la società e la cultura di tutti i tempi, pagando con la sua stessa vita. La “vera nascita” e la vita stessa del Vincent che conosciamo comincia su una tomba, nel giardino davanti alla chiesa di suo padre, pastore protestante, in cui si legge “Vincent Van Gogh, 1852. Lasciate che i pargoli vengano a me, giacché a loro appartiene il regno di Dio”, non è la tomba di Vincent, bensì quella di suo fratello, nato morto esattamente un anno prima di lui, addirittura lo stesso giorno. Dunque, il nostro piccolo Vincent passava davanti alla “propria” tomba quasi ogni giorno, e non occorre essere Freud per capire che vedere tutti i giorni una tomba con il proprio nome, non può fare bene alla testa di un bambino. Gli toccò prendere confidenza con la morte ancor prima di conoscere la vita. Ciò che sappiamo del nostro Vincent, oltre che da alcune fonti storiografiche, ce le fornisce lui stesso nella fitta corrispondenza che ebbe per tutto il corso della sua vita con la sua famiglia ma soprattutto con suo fratello Theo, del Vincent bambino sappiamo invece davvero poco, tranne che leggeva parecchio e aveva scarsi risultati scolastici. Vincent arrivò tardi alla pittura, dopo un durissimo e lacerante lavoro di esercizi e studi da autodidatta, senza credere in se stesso fino al giorno in cui, all’improvviso, scoprì la meraviglia del suo genio. “La vita è breve per tutti, e il problema sta nel farne qualcosa di valore” scrisse nel 1885. Passò i primi anni della sua vita tra varie scuole pubbliche e collegi, passando anche per una galleria d’arte che si occupava di artisti contemporanei. Sin da piccolo fu sempre curiosissimo di tutto, del mondo, dell’arte, delle sfaccettature dell’essere umano, si spostava di continuo, gli piaceva vedere sempre posti nuovi e osservare il variopinto dispiegarsi della vita, in ogni sua forma. Osservare, anche senza partecipare. Il tempo trascorre da una delusione amorosa all’altra, per tutta la vita, determinando sempre più tendenze malinconiche e nevrotiche e un generale complesso di inferiorità, e da continui viaggi in abitazioni fatiscenti sempre diverse, vivendo nella stragrande maggioranza del suo tempo in assoluta solitudine e chiudendosi sempre più in sé stesso. A ventiquattro anni è già pienamente e forse irrimediabilmente introverso e scostante con gli altri. Tenta comunque di dimostrare una certa fierezza per la sua diversità. “Non bisogna dispiacersi di essere strano. Vivo in disparte” scrive al fratello. Insomma, in quelli che dovrebbero essere gli anni più belli della vita, ci troviamo davanti a un Van Gogh già disperato. Nel frattempo comincia a riscoprire sempre più la pittura, passa le giornate leggendo o camminando. Una mattina, pigramente, estrae di tasca una matita, la busta di una lettera, e fa lo schizzo di un minatore che passa per strada. Da quel giorno, i disegni diventano per lui una frenesia, ne fa continuamente. Gli restano solo circa dieci anni di vita. Naturalmente non vende nessuno dei suoi primi disegni, anzi, le reazioni di chi li guarda sono piuttosto sgradevoli. Scrive Vincent a Theo “Non ne capiscono nulla e pensano probabilmente che io sia pazzo…”, in realtà tutto ciò gli determina fortissimi tormenti. Per molti anni non farà altro che esercitarsi, martoriandosi per imparare e scrive “Molti hanno a cuore più la vita esteriore che quella interiore e sono convinti di fare bene ad agire così. La società ne è piena: gente che lotta per mostrare la facciata, invece di vivere una vita vera. Non sono cattivi, sono solo sciocchi”. Mancano sempre meno anni alla sua fine, e nel frattempo proliferano sempre più i suoi autoritratti, i suoi paesaggi, i suoi campi, tutti dipinti realizzati girovagando con una cartella sotto un braccio e uno sgabellino pieghevole, fermandosi lì dove una scena o un paesaggio attira la sua attenzione. “Voglio fare dei disegni che vadano al cuore della gente, al cuore delle cose” scrive sempre a Theo, e ancora “Cosa sono io agli occhi della gente? Una nullità, un uomo eccentrico e sgradevole, l’infimo degli infimi. Ebbene, anche se ciò fosse vero, vorrei sempre che le mie opere mostrassero quello che c’è nel cuore di questo eccentrico, di questo nessuno”. Negli ultimissimi anni della sua vita Vincent comincia sul serio a venire considerato pazzo, ridono di lui, lo chiamano “il piccolo imbrattatele”, o “quel piccoletto pazzo”. Insomma più diventa bravo e immenso più viene deriso, questa è la sua sorte, e il suo furore scoppia furibondo, accusando il fratello, la famiglia e chiunque la sua mente gli metta sotto tiro. Sono gli anni che passa tra l’Olanda e Parigi, siamo ad un anno dalla sua morte, siamo tra il 1888 e il 1889, siamo a un passo dalla fine, siamo negli anni in cui Vincent si mutila l’orecchio sinistro. Immediatamente dopo viene data la notizia da un giornale locale: “Domenica scorsa alle ore undici e mezzo di sera, un uomo di nome Vincent Vogogh, (scritto proprio così) si è presentato ad una casa di tolleranza, ha chiesto di una donna di nome Rachele (sua amante nei mesi prima) e le ha consegnato un orecchio! Un suo orecchio, dicendole: Conservate questo oggetto gelosamente. Poi è scomparso. Informata dell’accaduto, che non poteva attribuirsi se non ad un povero alienato, la polizia si è recata l’indomani mattina a casa dell’individuo, che ha trovato steso a letto e che non dava quasi più segno di vita. L’infelice è stato urgentemente ricoverato all’ospedale”. In ospedale Vincent viene curato per la ferita, e subito dopo chiuso nella cella dei pericolosi, incatenato a un letto di ferro murato alle pareti e al pavimento. Siamo agli anni del manicomio, siamo negli anni di Saint-Remy. Tra i pazzi, Vincent trova la solidarietà che non aveva trovato tra i sani. Una sopportazione vicendevole. Arriva alla conclusione che morire pazzo non è peggio che morire per qualsiasi altra malattia. Da lì a decidere che morire giovane non è peggio che morire vecchio ci vuole poco. Vincent Scrive “I pittori, sia pur morti e sepolti, parlano alle generazioni successive con le proprie opere. Nell’esistenza dell’artista forse la morte non è l’atto più difficile. Io dichiaro di non saperne proprio nulla, ma sempre la vista delle stelle mi fa sognare”. È il periodo della Notte Stellata di Saint-Remy, la più famosa, dove le stelle paiono muoversi in una corrente celeste, indecifrabile. Quando dipinse quelle stelle accadde probabilmente qualcosa di terribile nella testa del povero Vincent, quella notte riuscì a scoprire qualche segreto troppo grande nel segreto dell’universo. Il cipresso e il roteare pazzo delle stelle rappresentò il complotto definitivo che nessun uomo dovrebbe conoscere, per non venirne schiantato. Dopo qualche mese, uscito dal manicomio, si trasferisce prima a Parigi e poi ad Auvers, dove si uccide nella sua stanza, non prima di aver concluso gli ultimi dipinti della sua vita. Questa la lettera prima di suicidarsi “Io sono completamente preso dall’immensa pianura con i campi di grano contro le colline, senza confini come un mare, di un giallo, di un verde tenero. Sono campi estesi di grano sotto cieli agitati e non avevo bisogno di uscire dalla mia condizione per esprimere tristezza e solitudine estrema. Ebbene, nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione vi si è consumata a metà”. Nel mio lavoro ci rischio la vita, e la mia ragione vi si è consumata a metà.
Salvatore Desari, nasce a Vittoria, nel 1978. Frequenta il Liceo Scientifico a Vittoria e l'Università di Giurisprudenza a Catania. Da sempre libero appassionato di lettura e scrittura.
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