Angela, da inizio settembre di quest’anno sei diventata la direttrice dell’Osservatorio Astronomico di Palermo. Come si arriva a questo importante ruolo?
Ho conseguito la laurea e il dottorato in fisica a Palermo. Durante questo periodo mi sono dedicata agli studi di fisica solare, un campo di grande rilevanza in quel periodo, entrando a far parte di un gruppo di ricerca focalizzato su queste tematiche. Finito il dottorato con una borsa di studio mi sono trasferita a Firenze, all'osservatorio di Arcetri, nel gruppo del prof. Giancarlo Noci, che era il responsabile dell’aspetto teorico di uno strumento che sarebbe stato lanciato alla fine del 1995 sul del satellite Soho, che ospitava a bordo 12 strumenti per lo studio di vari aspetti della fisica solare. In seguito il prof. Noci mi propose di andare Boston presso l’Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics (detto colloquialmente CFA) dove avrei partecipato alle ultime fasi di calibrazione dello strumento che sarebbe andato in orbita da lì a poco.
Un bel salto, da Palermo agli Stati Uniti. Quanto tempo ci sei rimasta?
Ci sono rimasta sette anni. Ho fatto parte del team che alla NASA/Goddard, che si occupava della gestione dello strumento, un aspetto interessante sebbene lontano dalla ricerca. In quel periodo ho iniziato ad occuparmi, insieme a un ricercatore americano, dei fenomeni di eruzione solare detti Coronal Mass Ejection (CME), di cui ho continuato a interessarmi anche dopo il periodo passato al Goddard.
E non ti sei fermata alla Nasa.
No, dopo circa due anni di Mission Operations sono tornata a Boston, al CFA, dove ho ottenuto una posizione di ricerca, che avrei potuto anche mantenere. Però, alla fine sono tornata a Palermo, anche se negli States ho mantenuto tanti contatti.
E in Italia hai portato la tua esperienza americana.
Si, ho continuato ad occuparmi di CME ma nel frattempo mi ero appassionata a tematiche legate allo studio della materia organica nello spazio e ai possibili legami con l’origine della vita. A Boston avevo conosciuto un collega di Bologna che aveva iniziato esperimenti di astrobiologia,che miravano a capire in quali condizioni le molecole di DNA potessero sopravvivere in condizioni poco ospitali come quelle presenti sulla Terra primordiale. Tornata a Palermo decidemmo quindi di riprodurre gli esperimenti in condizioni più realistiche, utilizzando sorgenti di radiazione X esistenti nel laboratorio dell’Osservatorio Astronomico di Palermo. Questi strumenti simulavano i raggi X solari che sono una componente molto importante nello spettro emesso da stelle come il Sole, particolarmente significativa durante la loro fase giovanile, periodo in cui si ritiene sia apparsa la vita sulla Terra.
E questo fu l’inizio. Quanti anni fa?
Cominciammo nel 2004, per capire se la molecola di DNA presente nelle pozze di acqua tiepida, ipotizzate da Darwin popolare la Terra primordiale, fosse in grado di sopravvivere all’ambiente circostante, magari con l’aiuto delle argille, che costituivano il fondo di questi bacini.
Questo per capire com'è nata la vita?
Non proprio, più che per capire come sia nata la vita, ovunque si sia generata, l’idea era capire in che condizioni la vita avrebbe potuto sopravvivere. Questo segnò in qualche modo l'inizio di un percorso scientifico che mi ha allontanato dalla fisica solare, sebbene prosegua, di tanto in tanto, la mia collaborazione con il gruppo americano. Nacque così l’idea di costruire ex-novo un laboratorio in cui si potesse studiare la formazione di molecole organiche nello spazio. Laboratori di questo tipo ne esistevano già, pure qui in Sicilia a Catania. Tuttavia, l'elemento innovativo che desideravo introdurre era l'uso della radiazione X, una competenza specialistica presente all’Osservatorio di Palermo fin dai tempi di Giuseppe Vaiana, a cui l'osservatorio è dedicato. Noi siamo stati il primo gruppo al mondo a condurre esperimenti di astrochimica in queste condizioni, e i primi articoli a riguardo sono stati pubblicati, se non ricordo male, nel 2011. Il laboratorio, denominato LIFE (Light Irradiation Facility for Exochemistry), rappresenta una scommessa vinta, ed è stato realizzato con risorse limitate grazie al sostegno costante, sia economico che operativo, di tutti i direttori dell’Osservatorio che si sono succeduti nel tempo. Attualmente, stiamo costruendo una nuova struttura che esplorerà le frontiere avanzate della chimica dei pianeti extrasolari e delle loro potenziali condizioni di abitabilità.
Quindi l’idea che abbiamo noi profani dell’astronomo che di notte se ne sta a guardare le stelle non esiste più?
Esiste ancora. Si fanno ancora le osservazioni dalla Terra, ma ancor di più dallo spazio. Il mio campo è tuttavia l’astrofisica sperimentale, che prepara le basi per l’interpretazione delle osservazioni astronomiche. E non solo, negli esperimenti di laboratorio si costruiscono ambienti che non sono direttamente accessibili alle osservazioni e in cui vengono riprodotte condizioni chimiche e fisiche che sono totalmente “aliene” alle condizioni terrestri.
E adesso, dopo tutti questi anni di lavoro, ricopri il ruolo di direttrice dell’Osservatorio di Palermo. Ma nei fatti, che cosa fa il direttore di un osservatorio?
Fa tante cose, forse troppe. Chiaramente devi riuscire a far conciliare la ricerca con la parte amministrativa e gestionale. Cosa molto diversa da quello che hai fatto fino a quel momento. È una cosa che prende tempo e, come dico spesso, in questo mi sento ancora in prima elementare, nella fase di apprendimento. Devo imparare tutte quelle cose che finora sono state ben lontane da ciò che ho fatto. Gestire un progetto è diverso che gestire un intero osservatorio, in sé un piccolo mondo. Ma la domanda giusta sarebbe “perché lo hai fatto”?
Infatti, perché lo hai fatto?
Non lo so, forse perché era tempo di fare una cosa del genere, perché pensi di poter contribuire a rendere più gradevole il posto, a renderlo più efficiente e dare un contributo alla crescita e allo sviluppo della ricerca globale e non solo della propria. È comunque è un’esperienza affascinante perché si vedono le cose da un’altra prospettiva. Diciamo che è cambiato il mio modo di vivere in osservatorio. Prima c’era la mia nicchia, che era quella ricerca specifica, e adesso la “nicchia” è diventata molto più grande e io sono diventata il punto di riferimento per tutto ciò che accade in osservatorio. È un lavoro molto diverso da quanto fatto finora, però si riesce a conciliare ricerca e coordinamento.
Quindi riesci ancora a fare ricerca?
In questa prima fase devo dedicare molto tempo a capire come funzionano le cose, a cercare di capire i meccanismi dell’amministrazione e della burocrazia, fisiologicamente ostica al ricercatore. Quindi il tempo non è molto, ma credo che tutto sommato si riesca a conciliare le due cose. So di non potermi più dedicare al 100% alla ricerca; sto cercando il modo migliore per armonizzare la mia passione con altre responsabilità.
Quindi riesci ancora a fare ricerca?
In questa prima fase devo dedicare molto tempo a capire come funzionano le cose, a cercare di capire come funziona tutta la parte amministrativa e burocratica e quindi il tempo non è molto, ma io credo che tutto sommato si possa riuscire a far conciliare le due cose. So di non potermi più dedicare dal 100% alla ricerca, però sto cercando di capire qual è il modo migliore per far convivere le due cose.
Parlando di osservatori, quanti ce ne sono in Italia?
Quelli che fanno capo all’Istituto Nazionale di Astrofisica sono sedici.
E tutti lavorano allo stesso progetto o ciascuno si è specializzato in un determinato ambito?
Esiste naturalmente un filo conduttore comune, ma è evidente che l’orientamento varia generalmente verso settori diversi. Negli osservatori troviamo spesso una componente osservativa, che tende frequentemente a essere predominante, affiancata da chi si occupa di modellistica e da una parte sperimentale legata sia alla ricerca di base che allo sviluppo tecnologico. In alcuni osservatori, l’attenzione è rivolta principalmente a oggetti specifici, come stelle o galassie, mentre in altri si privilegia lo studio di fenomeni di altissima energia o l’indagine globale dell’Universo, la cosmologia. Tuttavia, nessuna sede dell’INAF è polarizzata esclusivamente su un unico argomento, il che favorisce un’interazione dinamica e produttiva tra i vari istituti.
Tra i sedici osservatori, quello di Palermo quanto è importante?
Palermo non è tra gli osservatori più grandi sebbene non sia nemmeno il più piccolo. È tuttavia tra quelli più piccoli in termini numerici, rimanendo tuttavia di grande impatto nel mondo della ricerca astronomica.
E invece come qualità della ricerca?
Come ho detto, la qualità della ricerca è decisamente alta. In INAF il livello è alto dappertutto. Da noi ci sono dei gruppi che hanno grande rilevanza a livello internazionale, non siamo marginali. Siamo invece periferici perché alla periferia del paese, e di questo ne paghiamo lo scotto in termini di reclutamento, perché la Sicilia è meno raggiungibile rispetto a un osservatorio del nord. Da Milano a Roma ci vai in treno, ma se da Palermo devi partecipare a una riunione che si tiene a Roma devi necessariamente volare. Ed è altamente probabile che una persona che viene dal nord appena ne avrà la possibilità tornerà a lavorare al nord. Perché se vivi a Milano e lavori a Bologna, è molto più facile che tu a Bologna ci rimanga. In questo senso essere periferici non aiuta, sebbene noi a Palermo abbiamo qualche ricercatore straniero. Abbiamo (per esempio) due colleghi spagnoli che sono qui da tanti anni, e abbiamo avuto una ricercatrice tedesca che è rimasta con noi per diverso tempo ma che poi, per problematiche personali, è tornata in Germania. Però la difficoltà nella collocazione geografica è reale.
Da come parli, dai l’idea di essere felice del lavoro che fai.
Questo è un gran bel lavoro, è un lavoro affascinante perché affronti i misteri della natura, e poi se fai una cosa che ti piace non puoi certo chiamarlo “lavoro”.
È impegnativo, però. Devi sempre tenerti aggiornato…
È impegnativo, è vero. Però non lo percepisci come uno sforzo, anche se è ovviamente faticoso. Ma il lavoro in sé, la ricerca, non lo vivi mai come un lavoro. E secondo me, poterlo fare è una fortuna che hanno pochi. Forse fortuna non è la parola giusta, fare il ricercatore non si improvvisa, non si impara su internet o digitando due frasi su un software di intelligenza artificiale. È una strada dura, ma gratificante. È proprio questo che qualifica la ricerca. La fai perché senti di farla, e usi il tempo che ci vuole.
Mi dicevi che fare ricerca non è come lavorare in un ufficio, non stacchi quando timbri il cartellino. In un certo senso ti porti con te il lavoro. Non ti sembra in questo modo di sacrificare la tua vita privata, la famiglia?
Il tempo libero sì, quello mediamente viene sacrificato. Questo è un mestiere che ti assorbe molto. Però non credo si arrivi a trascurare vita privata e famiglia. Credo sia solo una questione di organizzazione, e di darsi una regola. Conosco tante persone che hanno figli e conducono una vita “normale”. Lavoriamo molto ma io non lo percepisco come un lavoro che ti costringe necessariamente a fare rinunce.
Meno Occhipinti, giornalista e scrittore, è nato a Ragusa nel 1961. È tra i fondatori di questo mensile e ha collaborato con il quindicinale La Città e con il portale di informazione Italianotizie.it
Ha pubblicato i romanzi Le parole sono chiuse (1996) e Fragili legami (1998). È stato l’addetto stampa del Padua Rugby e ne ha raccontato la nascita nel libro Ragusa Rugby, genesi di una passione (2018). Nel 2021, insieme a ‘U Gaddru, ha pubblicato Ragusa grande di nuovo, una raccolta di articoli satirici, e nel 2023 ha pubblicato Interviste. I musicanti, i teatranti, gli altri.
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