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Alla scoperta del Maestro

Sara Sigona 14 dicembre 2024


Il legame tra un fotografo e il suo assistente è spesso paragonato a quello tra maestro e allievo: una relazione che si sviluppa nell'intimità del lavoro quotidiano, fondata sulla fiducia, lo scambio e la crescita reciproca. Come scrive Roland Barthes, ogni scatto è un frammento di verità che il fotografo cerca di fissare nel tempo. Tuttavia, questa verità sarebbe incompleta senza la presenza silenziosa di chi lavora al suo fianco, facilitando e arricchendo il processo creativo.
Peppino Leone, grande maestro della fotografia, ha consegnato un'idea di arte di cui la sua assistente, la fotografa e curatrice Emanuela Alfano, è co-creatrice e interprete. Ha curato ed allestito importanti progetti espositivi ed editoriali del Maestro in Sicilia e all’estero, creando un rapporto che si è nutrito di un linguaggio comune e di una passione condivisa per la fotografia e per il mondo che Leone ha saputo immortalare con il suo obiettivo. In questo percorso anche la fotografa Federica Siciliano si è unita portando nuove energie. Oggi Emanuela e Federica sono custodi di una visione che continua a vivere e ad evolversi, un’eredità che attraversa il tempo.

Come ha avuto inizio la collaborazione con Giuseppe Leone?
Ho conosciuto il Maestro Leone nel 2006 quando, appena laureata all’accademia di Belle Arti, per un caso fortuito iniziai a lavorare nella sua galleria Degustarte Spaziostrano, nel centro di Ragusa. Era fine febbraio del 2006 quando uno dei figli del Maestro mi chiamò chiedendomi se fossi disponibile a lavorare nella galleria del padre, risposi di sì ma solo per qualche mese. La galleria era un luogo eccentrico voluto dallo stesso Maestro Leone e dal suo amico fraterno Enzo Di Pasquale, i fratelli Di Pasquale sono stati i sostenitori del Maestro, i mecenati e gli amici fraterni, a cui dobbiamo sempre tanto. A marzo quindi iniziai questa collaborazione con il Maestro Leone che pensavo davvero momentanea. Spaziostrano si rivelò invece una fucina, quella che io definisco la prima scuola di apprendimento, il punto d’inizio di una storia che, a dispetto di quello che pensai inizialmente, è durata 18 anni. Mi resi conto quasi subito che la galleria e lo studio del Maestro erano luoghi di grande bellezza e proprio lo studio, in Corso Vittorio Veneto 131, un tempio sacro della fotografia analogica e della memoria. Poco tempo dopo il Maestro volle che la mia collaborazione si estendesse anche nello studio, così che mi addentrai totalmente nel “fantastico” mondo di Giuseppe Leone, il Maestro credo in qualche modo mi prese quasi subito in simpatia, e questa simpatia divenne grande rispetto reciproco e affezione. Lavorare al suo fianco è stato per me motivo di crescita personale e soprattutto professionale, ho preso davvero tutto quello che avevo imparato in accademia e messo in un cassetto, per poter imparare nuovamente cosa è la luce e l’ombra, come guardare con occhi sempre rinnovati, di non cadere nel giogo della quotidianità.

Nelle dinamiche tra assistente e fotografo, potresti raccontarci come il Maestro, attraverso il suo stile unico, raccoglieva o costruiva quelle immagini che poi divenivano leggende visive? Qual era la magia dell’attimo colto? (Anche qualche aneddoto)
Ho sempre pensato che il Maestro Leone fosse una sorta di mago, uno sciamano, un veggente. Prevedeva sempre gli attimi e li catturava. Dostoevskij disse che la bellezza salverà il mondo, il Maestro Leone la bellezza la rendeva eterna, imprigionandola nella materia argentica, con i suoi occhi di fotografo “rapace”, come lo definì Bufalino. Una frazione di secondi e la magia con lui diventava tangibile. Un mago del tempo e della luce. Vederlo fotografare e stampare era alchimia pura, è stato per me un privilegio; in camera oscura la sua opera creatrice si esprimeva nella più alta forma, come un direttore d’orchestra a ritmo guidava la luce, il tempo e la chimica in una reazione prodigiosa, l’immagine in potenza si faceva presenza. La sua scrittura era l’immagine ed è in quell’immagine, nata dall’occhio rapace, che resta immortale lo spirito del grande fotografo. I suoi scatti fuggono dalla bidimensionalità della carta, prendono vita, sono come evanescenze argentiche che narrano la storia più bella, la storia che ognuno carpisce e che in qualche modo riconosce, che rimanda alle radici della nostra terra. Era un viaggiatore instancabile sempre alla ricerca di nuove rivelazioni, e in quei viaggi che ho avuto modo di vedere come il Maestro recepisse il mondo, il suo sguardo era carico di energia, era ammaliato e affascinato, era carico di curiosità, una curiosità che oserei definire fanciullesca (nel senso di visione pura, sguardo sempre rinnovato e curiosità conoscitiva sempre viva).  Dopo 18 anni spesso ci capivamo al volo non servivano le parole, nelle sue “battute” fotografiche si muoveva veloce, diretto e quasi con fare impercettibile, uno scatto e un pezzetto di mondo era catturato. Ricordo come fosse ieri a marzo eravamo a Randazzo, il giorno prima avevamo avuto la presentazione a Valverde dell’ultimo libro Iblei Qui è un’altra Sicilia, e decise che ci saremmo fermati una notte a Linguaglossa per una gita. Mentre si girava nel borgo etneo nella piazza si allontanò veloce, impugnò la sua amata Leica e scatto alcune fotografie a dei bambini che giocavano nella piazza antistante la chiesa. Scattate le foto, felice come quei bambini che aveva appena fotografato, si girò e cercò il mio sguardo, mi sorrise e capì che erano le fotografie che mancavano per completare il libro dei bambini su cui stavamo lavorando e che, a causa della sua dipartita improvvisa, è rimasto momentaneamente in sospeso. Un momento epifanico.




Guardando alcune delle sue più note fotografie, luci e ombre si rincorrono ridisegnando atmosfere, anfratti urbani o rurali. Ho l’impressione che l’ombra non parli di assenza piuttosto di una presenza. Forse Leone aveva una visione particolare di come le luci e le ombre dovessero interagire?
La luce era la sua penna, la sua matita, il suo pennello, con la luce lui creava, ridisegnava le forme, le plasmava. Tutto doveva avere un grande equilibrio, i neri dovevano essere profondi, i bianchi mai troppo accesi, e i mezzi toni dovevano essere equilibrati in un caleidoscopio di toni morbidi. Niente era lasciato al caso a partire dallo scatto fino alle mascherature in camera oscura. Mi ripeteva sempre che era importante catturare il momento, cogliere l’istante irripetibile ma di attenzionare sempre la luce. Talvolta, se la luce non era “quella giusta”, come diceva lui, non fotografava, preferiva rinunciare e aspettare il momento giusto, il momento in cui la luce e le ombre si univano e creavano un equilibrio tale da rendere vivo il paesaggio o l’architettura o gli scorci urbani, il momento in cui la cosa fotografata aveva profondità, tridimensionalità. Le ombre non sono semplicemente l’assenza di luce sono la profondità che ci permette di recepire la luce, per questo la stampa per lui era un momento topico, che andava attenzionato e che doveva seguire lui in prima persona, era il momento creativo, il momento in cui la fotografia si fa presenza e in cui ogni tono ha il suo ruolo decisivo affinché una fotografia possa essere definita tale e possa vibrare e raccontare.

In che modo ti sentivi parte di quel processo creativo che ha portato alla realizzazione di progetti espositivi ed editoriali?
Il Maestro era non solo una grande fotografo, era anche un uomo generoso, un grande esempio di magnanimità ma anche di audacia nella ricerca della verità “nuda e cruda”. Si batteva per difendere la bellezza e ciò che reputava giusto, un guerriero. Il suo studio era il suo luogo del cuore, la sua casa, il luogo in cui ancora oggi la gente e i suoi amici vorrebbero “vederlo”. Ed è nel suo studio che lui aveva creato il cuore pulsante della sua creazione artistica, per non parlare della camera oscura una sorta di Sancta Sanctorum, come la definiva lui stesso, ridendo poi con quella risata calda e sonora. La sua generosità si è palesata proprio con me e la mia collega Federica Siciliano, con noi condivideva progetti, voglia di fare ed entusiasmo. Due giovani donne coinvolte nel grande progetto artistico di un pilastro della cultura. Era lui che coinvolgendoci ci permetteva di fare parte del processo creativo, come un prolungamento che dal suo pensiero si estendeva nelle nostre mani. Con lui abbiamo realizzato tanti progetti soprattutto editoriali, fare libri è stato quello che io definisco l’atto sublime del ribellarsi all’ordinario. Il maestro Leone è stato un fuoco creatore che permetteva di alimentare bellezza, progetti su progetti, in un continuo atto fecondo. Il suo studio era un tempio sacro, non smetterò mai di ripeterlo, una fucina di idee per gli intellettuali. Era sempre pronto all’ascolto di nuove idee, lasciandoci libere di sperimentare e di fare. Rendendoci entusiaste di ogni giorno trascorso tra le sue fotografie.

Nella presentazione dell’opuscolo “Omaggio a Peppino Leone” hai ripercorso le tappe fondamentali della fotografia di Leone che si accompagnano a dei sodalizi importanti. Cosa ti ha colpito dell’excursus della vita del Maestro?
La sua umiltà di definirsi un semplice artigiano della fotografia. La sua capacità di stupirsi ogni giorno, di sé stesso e della sua fotografia. È stato amico di Sciascia, di Bufalino, di Consolo, di Sellerio, e di tanti altri grandi personaggi della cultura, eppure lo reputava un frutto fortuito del caso, un colpo di fortuna, un caso strabiliante della vita. Io penso che ognuno di noi nasca con una vocazione un mandato, niente è frutto semplicemente del caso tutto è già stato stabilito, lui fin da bambino ha seguito pienamente questa sua vocazione, rendendo la sua stessa esistenza eterna, proprio come le sue immagini impresse nella materia argentica.

Come vedi il cambiamento del panorama della fotografia oggi, considerando l’era del digitale?
Cos’è per te la fotografia?
Viviamo un’epoca in cui il vortice della tecnologia ci frastorna e ci immerge sempre di più in una convergenza di dati e metadati. Il ventunesimo secolo ha portato sicuramente ad un’evoluzione tecnologica straordinaria, l’intelligenza artificiale sta sovvertendo la visione immaginifica, dove tutto diventa possibile, i rullini analogici sono sostituiti ai sensori digitali e le macchine fotografiche digitali hanno permesso a tutti di poter scattare una fotografia con facilità, i cellulari hanno permesso di veicolare le immagini in tempo reale, un processo che potrebbe essere definito come la democratizzazione della fotografia. Siamo ovviamente figli del nostro tempo, il Maestro ne era consapevole, tuttavia penso che non bisogna scordare le proprie radici, è necessario avere quello che io chiamo un pensiero analogico. la fotografia è per me un singolare intreccio di tempo e spazio, l’apparizione unica e poi ripetibile di un oggetto, il bisogno di impadronirsi di oggetti e di persone e superare l’unicità, diventando tuttavia rappresentazione istantanea del momento irripetibile. È un oggetto fisico, è presenza, è memoria, è ricordo, è traccia di qualcos’altro, è storia. È il risultato congiunto di una relazione, di un legame e di una connessione tra il soggetto e il fotografo, il cui desiderio di rappresentazione della realtà crea una relazione tra le cose e le perpetua nel tempo. In questa relazione si innesca la necessità di saper leggere una fotografia, altro dettame sacro imparato dal Maestro, analizzare il contenuto che rappresenta, così che venga svelata la storia che racconta, le intenzioni che hanno spinto a realizzare quel determinato scatto, frutto del contesto storico e sociale in cui il fotografo è vissuto. La cosa che mi rende felice è che oggi c’è un ritorno alla fotografia analogica, forse un po’ per moda ma comunque c’è, soprattutto trai i più giovani, di questo il Maestro ne sarebbe felice anche lui. Aveva uno sguardo di attenzione proprio su queste giovani leve della fotografia.

Qual è il tuo rapporto con la fotografia del Maestro, dopo la sua scomparsa?
Al momento la situazione è purtroppo delicata, il Maestro è andato via all’improvviso, ci ha spiazzato, destabilizzato, lasciando un grande vuoto. Questo ha causato un arresto forzato, una stasi forse necessaria per ragionare sul valore e sul futuro di, quello che va definito necessariamente e assolutamente, patrimonio culturale. Il suo archivio è un giacimento culturale di notevole importanza, una risorsa ricca di istantanee che fermano il tempo e che raccontano del cambiamento epocale che questa terra ha attraversato. Ci ha donato un racconto per immagini emozionante: delle genti, delle feste, dei riti privati, dei paesaggi e delle architetture, dei luoghi ancestrali, ci ha narrato del gioco dei bambini e dello sguardo amorevole delle madri che in un prolungamento senza fine restano legati ai propri figli attraverso i sali d’argento. Il Maestro ha educato me e la mia collega alla lettura del suo archivio, a muoverci all’interno di quelle che definisco le sue connessioni cerebrali, così è strutturato l’archivio, un insieme di oggetti fotografici legati inscindibilmente l’uno all’altro all’interno di un organismo narrante che è il suo archivio, frutto del suo pensiero analogico e creativo. Posso solo essere grata della fortuna immensa che mi è stata offerta inaspettatamente in questi 18 anni, proprio per questa gratitudine e lealtà nei confronti del Maestro che cercherò sempre di coltivare, curare e portare avanti i suoi insegnamenti e la sua memoria, cucendo e curando sempre tutto quello che lo riguarda.

Leggi "Rimirare le stelle"

 

Sara Sigona

Giornalista pubblicista e insegnante, scrivo con la luce e con l’inchiostro sin da bambina. Fonte di ispirazione il viaggio lungo paesi del mondo e paesaggi esistenziali della contemporaneità.

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