Il titolo è pretestuoso, potrei raccontare del mio primo volo in assoluto che fu verso gli Stati Uniti, nel 1983, di quanta paura mi fosse stata instillata dai miei compagnetti di classe e di quanta ne avesse mia madre, tanto che i suoi capelli si drizzarono al ritmo dell'accelerazione dell'aereo in fase di decollo. Potrei raccontare di quella volta in cui non volammo in America perché ci trovammo coinvolti in un attentato terroristico a Fiumicino nel 1985, quando imparai la parola Kalashnikov; o potrei raccontare del mio primo viaggio in aereo da solo, a 17 anni, sempre verso gli USA. Potrei raccontare di quando ci andai 2 volte nel 2000, e non ho più avuto paura. Ma il titolo è pretestuoso.
Volare in America per raccontare il viaggio verso la concretizzazione di qualcosa che è sempre stato altro. L'America come metafora del diverso da me, il volare non è metaforico, indica l'unica maniera di viaggiare verso una meta indeterminata, ancorché abbondantemente anticipata con l'immaginazione.
La costruzione del nostro mondo parte dalle immediate vicinanze per proiettarsi in luoghi ignoti con cui si verrà a contatto in un lontano futuro e proprio perché lontano voliamo verso di esso con il pensiero. Anticipiamo gli eventi volando velocemente sopra tutto ciò che nel frattempo scorre sotto i nostri piedi.
Volare, si sa, accorcia i tempi di percorrenza, ma quello che noi pretendiamo non è arrivare presto ma arrivare dove vogliamo.
Solo che prendiamo un aereo senza pilota che dobbiamo imparare a pilotare mentre siamo in volo, prendiamo il brevetto da autodidatti, imparando dai nostri errori che, talvolta, potrebbero condurre al precipitare.
E davvero precipitano gli eventi nel frattempo, nello scorrere di un tempo che effettivamente si è accorciato, solo che la destinazione non è quella prevista.
Voliamo sopra i nostri pensieri, i nostri progetti e i nostri sogni, i nostri dubbi e le nostre stanchezze. Sorvoliamo sui momenti importanti e gli scarichiamo sopra il residuo della toeletta chimica del nostro inconscio.
Poi, infine, giungiamo a destinazione convinti di essere atterrati dove avevamo progettato di andare, ma il nostro volo è stato inesorabilmente dirottato oppure è durato così tanto che nel frattempo il mondo è cambiato. E ricominciamo a volare, per sempre.
Mentre volare verso casa è il ritorno verso luoghi conosciuti, dopo essersene allontanato.
Riesci a vedere dall'alto tutto quello che hai sempre visto dal basso e ti sembra di scorrere sulla cartina geografica fisica dell'atlante delle scuole elementari, o di fare un giro su Google Earth, o di essere l'occhio del navigatore che ci porta in strade conosciute. C'è un’ansia nell'approcciarsi al ritorno, la paura di trovare il cambiamento che inevitabilmente trovi, nei quartieri nuovi sbucati all'improvviso dal nulla e mi ci sono perso davvero in uno di villette tutte uguali, o nei volti invecchiati di persone che ti ricordi di aver conosciuto, che ti salutano perché tu hai viaggiato nel tempo e sei rimasto uguale, ma non ti ricordi più chi siano. E devi chiamare il tuo vecchio amico dalla memoria formidabile e devi farti dire chi sia quel tizio, e certe volte lo capisci altre no. Poi di notte vieni folgorato da una chiara immagine e no, non lo ricordi ancora.
Poi ti cominciano a salutare tutte le belle signore che un tempo erano state le belle ragazze che non ti salutavano mai, perché vivere per quindici anni a Torino, forse per il freddo, è stato un viaggio alla velocità della luce, in cui sono stato risucchiato in un buco nero e ora, tornato in volo, sono sempre io. Volando verso casa, capisci la relatività del tempo, la riconosci nel cambiamento che percepisci fuori di te ma di cui non ti rendi conto dentro di te. È uno strappo alla tua identità che ne rompe il continuum esistenziale, è una sferzata di gioia che ti riporta indietro, è un travolgente fraintendimento che ti fa amare ciò che è cambiato. Volare verso casa è semplicemente riabbracciarsi dopo un lungo addio che si è trasformato in un arrivederci, ora.
Giovanni Raniolo....
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