Maggio 2015

Dire IL SILENZIO

Riflessioni


Giuseppe Platania

Parlando del dialogo non si può prescindere dalla disciplina che l’ha reso uno strumento conoscitivo, ovviamente parlo della filosofia. È infatti comunemente noto che il primo a descriversi come un amico della sapienza (philos sophos) abbia fatto del dialogo il punto di partenza per le sue speculazioni teoriche. Platone era infatti convinto che non si potesse giungere ad alcuna verità prescindendo il confronto con l’altro: soltanto nel dialogo c’è la possibilità di chiarificare in maniera evidente il significato di concetti non universalmente validi come giustizia, libertà e così via. Ma tutta la grecità classica ha dovuto affrontare il problema – che Deleuze definirebbe – dei pretendenti. Pretendenti che cercano di mostrare come la loro opinione sia quella più corretta, è infatti noto che i procedimenti legali, dove per l’appunto, avviene un confronto di opinioni e testimonianze abbia trovato nella democrazia ateniese il suo primo sviluppo. Senza linguaggio non avremmo nessun tipo di dialogo. La stessa etimologia suggerisce, infatti, come la discorsività sia l’elemento fondante della relazione con l’altro. Da un punto di vista filosofico non esisterebbe nessuna problematizzazione senza il linguaggio, la domanda sull’Essere ha senso solo quando il termine essere è coniato e utilizzato. In questo sta una famosa affermazione di Heidegger per cui l’esserci (cioè l’esistere, l’essere al mondo) sarebbe anteriore all’Essere (da qui tutto il fraintendimento di chi vorrebbe un Heidegger puramente cattolico, che in questa frase vede solo un annebbiamento temporaneo). Ma volendo indagare più profondamente cos’è il dialogo, secondo me, non si può fare riferimento semplicemente al linguaggio. In fondo esso non è altro che una formalizzazione espressiva, come ne esistono tante altre. La relazione, il riuscire a trasmettere un proprio pensiero/stato d’animo all’altro, non deve per forza dipendere da condizioni linguistiche. Il corpo, formato da sguardi, gesti, rumori, atti di respirazione, è il primo punto in cui il dialogo si instaura. Ciò che si vorrebbe affermare è che il dialogo a un primo contatto è sempre silenzio. Solo dal silenzio si può dispiegare il linguaggio, inteso come la sua interruzione, ma non il suo contrario, in quanto si presuppongono vicendevolmente (non esisterebbe silenzio se non conoscessimo il rumore e viceversa). Il silenzio è di per sé comunicativo, esprime tutta una gamma di emozioni che difficilmente potrebbero essere formalizzate linguisticamente. Solo all’interno della dimensione silenziosa un gesto prende senso, l’intensità dello sguardo esprime qualcosa, la mano che sfiora la pelle e dà i brividi. Al detto corrisponde sempre un non-detto la cui importanza è uguale se non maggiore a ciò che si dice. Il silenzio parla. Io mi trovo davanti a te, siamo a questo mondo, ineriamo a questa situazione presente, mi avvicino, ti tendo la mano. Stiamo già comunicando, silenziosamente ti informo che esisto, che sono questa persona e che sarà per sempre vero che siamo qui, uno di fronte all’altro. Esprime un contenuto che non può essere reificato, che non può essere trasmesso altrimenti, che non offre nessun appiglio concettuale. Comunica qualcosa di primordiale, di originario. Originarietà che abbiamo perso invasi da tutte queste parole che continuamente ci trapassano, che pretendono di dirci qualcosa su di noi, senza aver mai saputo nulla. Il dialogo è quella relazione fondamentale che permette di darmi all’altro, di trascendermi in questo altro essere dinnanzi a me. Il silenzio è lo stupore davanti all’esistenza dell’altro, davanti al mio specchiarmi nelle sue iridi.