Novembre 2015

Notte a TREMILACINQUECENTO METRI

Sotto il cielo dell'Alto Atlante in Marocco


Nick Neim

Siamo giunti qui, sulla catena dell’Alto Atlante, per la traversata del monte Ighil M’Goun che è una delle più alte montagne del Marocco. Percorriamo già da cinque giorni sentieri appena accennati che raggiungono villaggi inesistenti sulle carte geografiche e abitati da ombre dietro porte senza chiavi e da bimbi curiosi ma sospettosi, attraversiamo torrenti che si perderanno al limitare del deserto, superiamo gole a volte ampie e verzurose a volte strette e ombrose e oscurate da pareti precipitanti da speroni rocciosi incombenti, ci arrampichiamo su fianchi di monti desertici, dove vediamo e calpestiamo soltanto pietre, massi, rocce e poi ancora pietre e rocce e massi. Procediamo per sentieri appena accennati; le piste si perdono in improbabili direzioni che camminano soltanto i pastori: li indoviniamo spersi sulle montagne, li incontriamo la sera, intabarrati, in bivacchi precari e addiacci, ci fanno compagnia la notte, acquattati come briganti al riparo di pungenti cespugli a qualche centinaio di metri di distanza, oppure in certe ore della giornata quando il sole, dopo che ci ha cotto per tutto il giorno, comincia a svaporare nelle ombre del tramonto. Le montagne, il silenzio: é un deserto d’altura questo che andiamo viaggiando; la vita sembra essersi nascosta in fessure, buche, anfratti da cui certe lucerte ci spiano immobili, ci guardano e non fuggono. Verso le quattro del pomeriggio arriviamo su una spianata d’alta quota, siamo a tremilacinquecento metri d’altezza, ci fermiamo; domattina affronteremo la cima, oltre i quattromila metri. Prepariamo il campo, ci dissetiamo alle sorgenti, ci organizziamo per la notte, ceniamo; poi il riposo all’imboccatura della tenda. D’improvviso la notte: la luce scompare con angoscia all’istante, non c’è luna, le stelle non feriscono il buio, non vedo le mani, non distinguo le dita. Si è fatto silenzio dal chiacchierio che c’era prima. La stellata è sopra di me, vibrante, viva, profonda, immensa, sterminata, enorme, smisurata; so che quelle luci vengono dal profondo, assoluto, abissale, infinito spazio, hanno viaggiato per anni e anni e anni e adesso io le vedo ma non riesco a capire realmente la loro lontananza: sono corpi celesti, galassie, pianeti, sistemi solari disseminati e spersi in cieli infiniti. Cerco di pensare l’infinito, di figurarmi quegli spazi incontenibili, quelle distanze sconfinate, quell’universo immenso che contiene tutti quei mondi smisurati, ma non ci riesco: la mente finita non può comprendere, capire, cogliere, includere, delimitare l’infinito, esso è sempre al di là dell’ultimo orizzonte figurato. L’infinito non può avere dimensioni, non ci possono essere un sopra e un sotto, un avanti e un dietro, non può avere direzione, tempo, misura. Fin dove si spinge lo spazio? Ha avuto un inizio, avrà una fine? Però, in quanto Infinito, non può avere né l’uno n’è l’altra. E l’Origine qual è? Chi è il Creatore? Il Creatore è l’Infinito? Vorrei credere nel Dio Creatore dei cristiani ma costui è un Dio ideato dalla mente umana, creato dal mistero stesso del Creato. Dio esiste? Che Dio è. In un momento una spossatezza infinita m’assale, mi sento stanco e sconfitto: l’impotenza mentale mi blocca il respiro, mi riempie le membra di un panico oscuro, sordo e profondo che giunge al cervello, invade la carne, mi sperde la mente. Chiudo gli occhi perché in quel buio totale non ho punti di riferimento, mi gira la testa e l’immensa cupola stellata sembra ruotare sopra me, mi pare di aver perso il mio peso, è come se il corpo levitasse e le stelle mi risucchiassero: mi aggrappo con angoscia alla coperta che mi copre le gambe. Ighil M’Goun 14 ottobre 2001