2023

Spaccare la finestra

Un’ora spesa male per la Bishop, un minuto sotto la pioggia per Carver e vent’anni per gli amici di Operaincerta


Tiziana Debernardi

In questi ultimi vent’anni ho cambiato due città, due case, almeno sette incarichi lavorativi e un’infinità di pettinature. Ho cambiato idea circa un milione di volte. Mi sono cambiata d’abito più spesso di quanto fosse realmente necessario. Come tanti, forse come tutti.
Ho smesso di fumare e di cantare sotto la doccia. Ho ricominciato a mangiarmi le unghie nei momenti di tensione. Mi sono convertita alla tecnologia in senso stretto: wifi, pagamenti elettronici, shopping online, home banking. E, di contro, ho impresso una svolta al mio modo di comunicare con gli altri: nessun social network.
Ho imparato a trasformare i tempi vuoti in momenti di gioiosa noia che mi riconnettono al mio mondo interiore.
Ho rivoluzionato le mie priorità dando spazio a ciò che mi fa stare bene (e a chi mi fa stare bene).
Non ho mutato il mio credo politico pur scontrandomi con un’infilata di delusioni.
Non ho mai smesso di spostare in avanti le lancette degli orologi di cinque minuti: non per essere puntuale ma per avere la sensazione di guadagnare tempo.
Ho variato molto il menu del pranzo e della cena: ma non quello della colazione.
In vent’anni ho cambiato tante abitudini e sono cambiate intorno a me tante cose che non riesco a tenerne traccia. Cambiamento non è matematico sinonimo di miglioramento e, anche se fa bene mettersi alla prova e accettare la sfida, non sempre cambiare vuol dire ottenere un risultato positivo. Significa avere altro, qualcosa di diverso.
L’unica cosa certa è che sono passati gli anni e che, nonostante tutto, in realtà sono un’altra persona. Ricambio di cellule continuo, gioie che elettrizzano, dolori che sfiancano. Se dovessi pensare a me vent’anni fa non riuscirei a fermarmi su un’immagine precisa: neanche una fotografia potrebbe restituirmi chi e cosa ero.
Peccando di presunzione mi viene in mente la poesia di Elizabeth Bishop, L’arte di perdere (da “Miracolo a colazione”) in cui l’autrice parla di cambiamenti subiti, anzi di perdite e di come si possa accettarne i risultati.

L’arte di perdere non è difficile da imparare;
così tante cose sembrano aspettare
di essere perse, che perderle non è un disastro.
Accetta l’ansia
di chiavi perdute, di un’ora spesa male.
L’arte di perdere non è difficile da imparare;
allora impara a perdere di più, a perdere
più in fretta:
luoghi e nomi e dov’è che avevi in mente
di andare. Non sarà mai un disastro.
Ho perso l’orologio di mia madre. E guarda!
l’ultima
o la penultima di tre amate case ho perso.
L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, belle. E, più vasti,
i regni che possedevo, due fiumi, un continente.
Mi mancano, ma non è poi un disastro.
Anche perdere te (la voce giocosa, i gesti
che amo) sarà la stessa cosa. È evidente
che l’arte di perdere s’impara fin troppo presto
anche se pare (scrivilo!) un disastro.

La presunzione sta nel fatto che molte delle sue perdite sono anche le mie (le nostre). Un’immodestia che vale la pena condividere. Cosa dice la Bishop? Dice che perdere qualcosa, qualcuno è quasi un atto necessario, dovuto: non c’è cambiamento senza perdita. E suggerisce di guardare alla perdita come ad un’arte che si può imparare: questo impone una nuova prospettiva che, in fondo, è già un cambiamento. Ciò che ci manca, ciò che lascia un vuoto ci costringe a guardarci da vicino, a voltarci indietro. Anche ad ammettere, probabilmente non senza qualche difficoltà, che il cambiamento, davvero, non è poi una sciagura: per qualcuno diventa un’opportunità, una possibilità che decidiamo di concederci.
C’è un’altra poesia che mi è venuta in mente sullo sguardo che si posa su ciò che via via siamo diventati, Chiudersi fuori e poi cercare di rientrare (da “Racconti in forma di poesia”) di Raymond Carver:

Si esce e si chiude la porta
senza pensarci. E quando ci si volta
a vedere quel che si è combinato
è troppo tardi. Se vi sembra
la storia di una vita, d’accordo.

Pioveva. I vicini che avevano la copia
della chiave erano via. Ho provato e riprovato
le finestre del pianterreno. Fissavo
il divano, le piante, il tavolo e le sedie.
Lo stereo all’interno.
La mia tazza di caffè e il posacenere mi aspettavano
sul tavolo col piano di cristallo e il mio cuore
era con loro. Li ho salutati: Salve, amici!
qualcosa del genere. Dopotutto
non era un grosso guaio.
Me ne sono capitati di peggio. Stavolta
era perfino un po’ buffo. Ho trovato la scala.
L’ho presa e l’ho appoggiata alla casa.
Poi mi sono arrampicato sotto la pioggia fino al balcone,
ho scavalcato la ringhiera
e ho provato ad aprire la porta. Chiusa a chiave,
naturalmente. Ma mi sono messo a guardare dentro
lo stesso, la scrivania, le carte e la mia sedia.
Questa era la finestra davanti
alla scrivania da cui alzo gli occhi
e guardo fuori quando sto seduto là dietro.
È molto diverso dal pianterreno, ho pensato.
È tutta un’altra cosa.

Ed era proprio forte guardare dentro così, senza esser visto,
dal balcone. Essere lì, dentro, eppure non esserci.
Non credo neanche di poterne parlare.
Ho accostato la faccia al vetro
e mi sono immaginato là dentro,
seduto alla scrivania. Che alzo lo sguardo
dal mio lavoro ogni tanto.
E penso a qualche altro posto
e a qualche altro tempo.
Alla gente che amavo allora.

Sono rimasto un minuto lì, sotto la pioggia.
Mi consideravo il più fortunato degli uomini.
Anche se mi ha attraversato un’ondata di dolore.
Anche se mi vergognavo violentemente
del male che avevo fatto all’epoca.
Ho spaccato quella bellissima finestra.
E sono rientrato.

È capitato a tutti di trovarsi chiusi fuori dalla propria casa, di dimenticare le chiavi (la Bishop direbbe perdere le chiavi). E allora invece di preoccuparsi Carver decide di trasformare il guaio in un’occasione. Per scoprire che è possibile guardare dentro senza essere visti; immaginarsi nella vita di ogni giorno senza davvero essere presente; pensare al passato di altri posti e di altri tempi e, infine, considerarsi il più fortunato degli uomini. È, in breve, l’iter del cambiamento: lanciarsi nella sfida di qualcosa di ignoto, ma immaginabile; confrontare ciò che non conosciamo con qualcosa che abbiamo già sperimentato e infine accettare il dolore che ci segna (Carver parla di attraversamento, un termine contiguo al cambiamento) fino ad arrivare ad un luogo tutto da svelare. Con l’emozione di aver raggiunto un traguardo, una meta.
Ecco, mi piace pensare al cambiamento come ad un punto di arrivo mai ultimo, ad una delle tante curve che si incontrano su una strada: a volte intraviste, a volte inattese. Perché anche l’attesa è parte del cambiamento, nostro e del mondo.

Un’ora spesa male per la Bishop, un minuto sotto la pioggia per Carver e vent’anni per gli amici di Operaincerta.