2023

Allo specchio di Operaincerta

Narrare la realtà tra passato, presente e futuro


Sara Sigona


Come è cambiato il mondo o come non è cambiato. Pensiero ineludibile nei fatidici momenti celebrativi quando ci si appresta con gli occhi lucidi a tracciare un bilancio della propria esistenza tra il ricordo di ciò che è stato e l'istantanea di ciò che è.
In questa terra di mezzo, le note struggenti di Mercedes Sosa, che nel 1984 cantava profeticamente che Todo cambia, sono uno scandaglio poetico per esplorare in profondità come noi siamo cambiati insieme a questo tanto beneamato quanto dissennato mondo. L'avvenimento speciale, questa volta, è il ventennale di Operaincerta, che, nonostante abbia avuto una battuta d’arresto nel 2019, continua ad essere un Paese meraviglioso da abitare, così come io stessa lo definì, in occasione dei primi dieci anni di attività.
Mi siedo alla scrivania e ascolto. Come non mi accadeva da tempo, prendo carta e penna. La voce prodigiosa di Mercedes se da un lato sospinge verso un futuro ancora ignoto, offrendo un mordente di tutto rispetto “Come sarà la mia vita da qui in poi?”, dall’altro elicita un lamento amaro e doloroso. Il medesimo provato dalla sua interprete nel vedere, in esilio forzato, la propria terra cambiare sotto i colpi della dittatura.
Oggi sono varie le tirannie progressiste che assediano questo mondo, alcune talmente invisibili che scorgerle richiede un’architettura emotiva ed intellettiva di non poco conto.
Nel corso di questi anni, il mondo è un nuovo mondo, globalizzato e iperconnesso, che ha scardinato le coordinate spazio–temporali della vita associata, legata alle innovazioni tecnologiche e alla creazione di un mercato globale di beni, capitali e persone.
Ma davvero questa nuova organizzazione della società umana,[1] che avvicina comunità tra loro distanti e allarga la portata delle relazioni di potere è quel grande villaggio fluido, coeso e familiare a cui si anelava nell’intento originario? Chi gode nei fatti dei vantaggi di questa evoluzione sul piano sanitario, economico e socio–culturale? I dati denotano disuguaglianze dalle proporzioni drammatiche. Secondo le stime più recenti nel 2022 quasi un miliardo di persone, pari al 15% della popolazione del pianeta, è da considerarsi in situazione di povertà estrema, e vive con poco più di un dollaro al giorno. Nei paesi in via di sviluppo, oltre otto milioni di bambini muoiono ogni anno a causa della malnutrizione, mentre l’accesso a istruzione, cure mediche e servizi igienici rimane privilegio di una minoranza. Gli stati più ricchi lo sono ancor più. In essi muoiono meno bambini, la scuola è quasi accessibile a tutti mentre più donne ricoprono incarichi istituzionali; paradossalmente il numero delle schede attive negli smartphone e nei telefoni cellulari supera quello degli abitanti della Terra, il cui uso genera oltre 8 milioni di gigabyte di traffico mobile, dando un bel contributo alle emissioni di CO2! L’obsolescenza precoce di questi orpelli, capaci di distogliere il nostro sguardo dalla vista dell’orizzonte, rimpingua la classica spazzatura elettronica, di cui solo una minima parte viene riciclata correttamente.
In questo paesaggio da discarica a cielo aperto non troviamo il solitario e sensibile robottino Wall-E a compattare le montagne dei rifiuti accumulate da una società votata al consumismo sfrenato, ma ci sono milioni di giovani che, riuniti attorno alla grande piccola Greta Thunberg, protestano in modo non violento anche inventandone di belle! È accaduto che gli attivisti di “Riprendiamoci il nostro futuro” abbiano imbrattato con vernice lavabile delle opere d’arte oppure si siano sdraiati sulle corsie laterali di via Conciliazione a Roma oppure abbiano bloccato l’ingresso del porto petrolifero di Malmö in Svezia attirando le esecrazioni di un mondo adulto indifferente alla crescita sregolata e incosciente e miscredente verso una detonante crisi climatica. Governanti e opinionisti piuttosto in collera con questi eco–vandali, così definiti da certa stampa gongolante nell’annunciare che Greta e i militanti della dittatura climatica, non resistessero al fascino dei riflettori e potessero essere incriminati per le proteste a danno di luoghi, cittadini e lavoratori. In questo quadro culturale non è una minaccia esistenziale il surriscaldamento globale! Di conseguenza non è una necessità impellente la riconversione ecologica! Infatti non riorienta le agende politiche e le scelte quotidiane di noi terrestri. Lo abbiamo già visto in anni di pandemia quanto i media esercitino un potere sopraordinario sulle coscienze collettive, terrorizzandole o rassicurandole, o in anni di berlusconismo quanto siano stati capaci di cambiare l’ethos di un popolo o ancora in anni di programmi televisivi investigativi quanto abbiano contribuito a coscientizzare, educando a guardare oltre l’apparenza.
La narrazione della realtà trova il suo presupposto nella libertà personale svincolata da padroni editoriali e governativi e in quel raro amore per la verità, che seppur plurale, nasce da una verifica delle fonti, da una ricerca attenta a restituire i fatti nel rispetto delle persone coinvolte, lontano da conclusioni sommarie o da pregiudiziali personali. Informare senza esacerbare è un bisogno per chi legge e un dovere per chi scrive.
Per tutte queste ragioni Operaincerta, rivista mensile dal taglio monografico nata a Ragusa venti anni fa, per me è casa. Manca la sua presenza di testimone autentica della vita, dei suoi grandi e piccoli avvenimenti, narrati con toni leggeri, a volte crudi, forse con un pizzico di autoreferenzialità? Può darsi ma è questa la magia che si compie in Operaincerta: chi scrive lavora la sua parola, la affina in un esercizio a tratti narcisistico che, una volta concluso, lo aiuta a ritrovare il problema dal quale si era partiti, per consegnarlo a nuovi occhi, dando forma (cfr. informare) ai perché e al senso delle cose con l’auspicio di postulare in chi legge non risposte ma domande altre.

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[1]  Held, McGrew, Global Transformation: Politics, economics and culture, 1999.